Succede, prima o poi, che si verifichino forti tensioni all'interno di un dojo, e che tanto accada perchè l'insegnante, a torto o a ragione, sia avvertito dagli allievi più avanzati come insufficiente.
Iniziano, allora, a praticare difformemente dalle direttive ricevute.
Eseguono le tecniche ispirandosi ad altri insegnanti, riproducendone le movenze e gli atteggiamenti corporei, e magari risultano anche accattivanti verso gli altri praticanti, che magari iniziano ad imitarli, destabilizzando la lezione.
Analogamente, ho spesso sentito o letto della delusione di alcuni sensei di fronte a questo fenomeno, fonte di delusione, stupore, sofferenza, per l'atteggiamento "irriverente" assunto da quegli allievi, che spesso erano particolarmente amati e nei quali l'insegnante pensava di avere una sorta di figlio "aikidoistico".
Chi ha ragione, è naturalmente qualcosa che dipende molto dalle situazioni caso per caso, e dunque è difficile generalizzare.
Tuttavia, mi è capitato di essere stato, per così dire, in entrambi i ruoli, e ne ho tratto alcuni insegnamenti.
Il punto di vista del sensei è generalmente quello di chi sente di avere creato qualcosa, sopportando le difficoltà di mettere su un dojo, passando attraverso mille peripezie, fatiche, spese.
Adesso arriva qualcuno che si è allevato, si è inserito in quel sapere, e senza alcuna gratitudine, ecco che quegli allievi deviano dalla linea impressa, mettendo in pericolo il rispetto e la considerazione verso il sensei.
In una parola, usurpazione.
L'allievo ha un punto di vista differente.
Dice a se stesso che ha studiato, si è impegnato, ha inevitabilmente, come un figlio che pure cresce nel rispetto del padre, deciso, ad un certo punto, di crearsi un suo percorso, guardarsi altrove, in una parola diventare adulto.
L'insegnante, spesso, ha inoltre da tempo smesso di studiare, di aggiornarsi, di crescere.
Si è accontentato di quello che sa, e pretende che gli sia dovuta devozione, più che riconoscimento di autorevolezza.
Spesso sostiene di non essere tenuto a studiare perchè, nella sostanza, lo ha fatto per tutta la vita, e dunque non è più tenuto a dimostrare nulla.
Penso che se avesse continuato a praticare con lo spirito giusto, quello di chi non si sente arrivato, forse la insubordinazione non sarebbe avvenuta.
D'altro canto, spesso l'allievo promettente pensa gli sia dovuta, gli spetti, la supremazia.
Si dice che è giovane, vigoroso, spicca certamente tra i praticanti, ed è dunque il suo momento.
Senza prendere a prestito la psicanalisi, o la zoologia, la sfida del giovane maschio al vecchio leone, è in buona misura fisiologica e inevitabile.
Però, va anche detto che un dojo non è la savana africana, e dunque le cose non possono mettersi semplicemente in questi termini.
Il punto, allora, è che spesso entrambi gli atteggiamenti sono sbagliati.
Il sensei, nella sostanza, ha due strade.
O studia, come dovrebbe essere più corretto, tutta la vita, continuando a sforzarsi di progredire, crescere, e allora in questo modo generalmente diventa attaccabile assai più tardi, e la sua posizione è meno semplice da mettere in discussione.
In tal caso, cedere il suo ruolo potrebbe non essere necessario per moltissimo tempo, potendo rinviarsi il problema della successione all'effettivo emergere di un grandissimo talento o al tardo sopraggiungere delle vecchiaia, momento nel quale si è più pronti, se non addirittura desiderosi, di passare la mano, o almeno ritagliarsi un ruolo differente.
Al contrario, se non ha voglia abbastanza precocemente di fare tutto questo, dovrebbe iniziare a rassegnarsi all'idea che è venuto il tempo di abdicare, perchè c'è qualcuno che può dare di più alla crescita collettiva, o almeno non ostacolare l'emergere di altri riferimenti all'interno del dojo, accompagnandoli e accettandoli, piuttosto che contrastarli.
Gli allievi più bravi, d'altro canto, dovrebbero seguire un percorso non solo tecnico, ma anche umano.
Dovrebbero, in sostanza, e prima di arrivare a chiedere di prendere il comando perchè tecnicamente molto preparati, mettersi a disposizione del dojo, manifestare abnegazione e dedizione verso le sue sorti.
Arrivare prima di tutti, andarsene dopo, aiutare il sensei in qualunque modo, prima, durante e dopo le lezioni.
Solo così si dimostra di essere pronti a succedere, e di meritarlo.
Se io ho un allievo bravo, ma non fa nulla per convincermi che si prenderà cura del club, di quello che è per me come un figlio, o come una casa che ho tirato su con le mie forze, allora certamente non potrò fidarmi e farmi serenamente da parte.
D'altronde, se il mio maestro, al quale voglio molto bene, invece che gioire per i miei progressi e per la mia crescita, mostra fastidio, e insofferenza, arroccandosi nella sua autorità piuttosto che valendosi della sua autorevolezza, inevitabilmente perderà stima e considerazione.
Se ognuno operasse correttamente, a mio giudizio gran parte delle rotture e delle delusioni che spesso si verificano nelle nostre palestre non ci sarebbero.
Per me è ancora un pò presto per trovarsi in questa situazione, ma già mi sto preparando all'evento, e ad una sua gestione sana e intelligente.
Cercherò difatti, per quanto mi riguarda, di fare applicazione di queste considerazioni, che sono anzitutto delle riflessioni personali frutto di una esperienza diretta, e di situazioni alle quali ho assistito.
Ai miei allievi, attuali e futuri, dico che mi considero un funzionario dell'aikido, e non un proprietario del dojo, e che dunque all'apice di tutto stanno le sorti dell'aikido cittadino, e non la mia vanagloria.
Quando non avrò più la voglia o la possibilità di progredire, sarà il momento di farmi da parte.
Allo stesso tempo, tuttavia, dico che la successione potrà avvenire solo a favore di chi mi dimostrerà, con i fatti e non solo con le parole, che la pensa allo stesso modo.
Nel frattempo, pensiamo ad allenarci.