Diceva continuamente il Maestro Fujimoto che praticare, in particolare in occasione degli stage ma non solo, era anzitutto studiare.
Studiare richiama un concetto di estrema attenzione, concentrazione su ciò che ci viene mostrato e ciò che facciamo nel tentativo di riprodurlo, e collide con la frenesia, la superficialtà, la distrazione.
Ho allievi di varia natura, e di quasi ognuno di essi potrei dire che presenta uno (o più) dei difetti in questione.
Qualcuno difatti è frenetico, e pensa che, versandosi in un contesto marziale, si debba necessaraimente e immediatamente impiegare molta forza e velocità di esecuzione.
Anche se non hanno compreso affatto ciò che è stato loro proposto, la prima se non unica preoccupazione è quella di tirare con ardore e rapidità.
Ricordo sempre in proposito alcune scenette piuttosto spassose, durante gli stage, nelle quali il Maestro rimbrottava alcuni entusiasti applicatori della pratica frenetica, dicendo loro che non stavano facendo quello che era stato illustrato, e ciò senza che quelli neppure se ne rendessero conto.
Ricordo in particolare il rimbrotto che rivolgeva ad un peraltro bravo istruttore, al quale si rivolgeva dicendo che in trent'anni e passa non era affatto cambiato, affermazione questa alla quale seguiva una frase di compiacimento dell'istruttore in questione, che ringraziava per quella che riteneva essere una lode, e che veniva subito ripreso da Fujimoto al grido di "Non è un complimento!".
Se il Maestro diceva che non eri affatto cambiato, difatti, voleva rimproverarti.
Intendeva dire che non eri cresciuto, e pensavi che tirando forte e deciso avresti mantenuto la bravura giovanile.
Non è così, evidentemente, perchè studiare, appunto, vuol dire evolversi, progredire tecnicamente.
Altri allievi sono un pò superficiali.
Vengono, magari si applicano sul tatami, ma poi tendono una volta scesi dal tappeto e terminato l'allenamento, ecco che non parlano più di quanto fatto, sospendono completamente l'attenzione verso l'aikido e quanto hanno fatto, "riattivando" la loro pratica soltanto all'allenamento successivo.
Questo potrebbe andare bene ove ci allenassimo, non so, tutti i giorni per diverse ore.
Allora, in quel caso, sarebbe perfettamente comprensibile "staccare", ma evidentemente non è così.
Gli allenamenti, anche praticando con costanza, sono per la maggior parte di noi pochi, al massimo quattro ore ogni due giorni, o giù di lì.
Di conseguenza, per imparare davvero, occorre rimanere concentrati su quello che si è fatto, allenarsi mentalmente e per almeno lo stesso numero di ore.
Diceva spesso il Maestro, d'altronde, che prima di riuscire a fare la tecnica sul tatami occorre riuscire ad immaginarla.
Infine, qualche allievo è distratto.
Tende addirittura sul tappeto a osservare senza attenzione e concentrazione.
Qualche volta guarda altrove, qualcuno sbadiglia anche.
Fujimoto lo avrebbe strozzato, o per lo meno allontanato immediatamente dal tatami, e forse mai più riammesso.
Naturalmente io non lo faccio, non sono un maestro, ed è bene non scimmiottare.
Tuttavia, e fermo restando che la cosa mi spinge ad impegnarmi di più per catturare quella fuggevole attenzione, mi chiedo se non ci sia anche in questo un approccio alla disciplina, e all'apprendimento in genere, molto passeggero, quasi che la logica della pratica sia "solo divertirsi".
Studiare, e solo con attenzione, permette di fare un buon aikido.
Solo se si fa un buon aikido, a mio giudizio, è possibile divertirsi davvero.
La soddisfazione profonda che può dare progredire rende, a mio giudizio, sempre nuova e stimolante la pratica.
Dove c'è arresto nella evoluzione, stagnazione, lì c'è l'inizio della fine.
Se non si progredisce più, ecco che ci si annoia.
Si abbandona, oppure ci si dedica ad altro, illudendosi di continuare a fare aikido.
Rimango sempre perplesso di fronte ai mirabolanti curricola di alcuni insegnanti, che sembrano eccellere nell'aikido, nello shodo, nello iaido, nel jo do, nel kenjitsu, nel tantra yoga, nella biodanza e chi più ne ha...
Loro non lo sanno, ma già non praticano più aikido.
Non so se lo hanno capito i loro allievi.
Dunque, studiamo, e se ci accorgiamo di cominciare ad annoiarci, allora studiamo di più.
E' l'unico modo per continuare a divertirsi.
Altrimenti, avrebbe detto Fujimoto, andate in piscina.
L'Aikikai d'Italia
L'Aikido a Foggia
L'Aikido a Foggia
sabato 8 dicembre 2012
martedì 13 novembre 2012
giovedì 8 novembre 2012
Stage di autunno con Montenegro sensei
Si svolgerà il prossimo 24 e 25 novembre, presso la palestra di atletica pesante "Taralli", lo stage con Daniele Montenegro, sensei, IV dan dell'aikikai d'Italia.
Daniele è stato per oltre dieci anni assistente e straordinario uke del Maestro Fujimoto.
Con la sua impressionante abilità ha permesso al Maestro di esprimersi al massimo delle sue possibilità, consentendogli di ricercare e mostrare vette sino ad allora mai esplorate della esecuzione aikidoistica.
Le movenze di Montenegro ricordano in maniera impressionante lo stile del Maestro, la sua pulizia ed eleganza,e costituiscono a mio avviso un eccezionale patrimonio dell'aikido italiano, e dell'aikikai in specie, che dovremmo tutti noi, e soprattutto gli istruttori, valorizzare e incoraggiare.
Per chi non li avesse visti dal vivo all'opera, dirò che a mio giudizio la "coppia" Fujimoto Montenegro ha rappresentato qualcosa che si avvicina incredibilmente alla perfezione.
Il modo in cui il Maestro è riuscito a plasmare questo "ragazzo" di trent'anni, la strabiliante armonia che questi due personaggi riuscivano ad esprimere nella illustrazione delle tecniche, è qualcosa che rimarrà sempre nei miei occhi, come l'approdo al quale aspirare, e l'obiettivo di una carriera.
Gli aikidoisti di mezza Europa, e con essi quelli sudafricani e di altre parti del mondo che accorrevano agli stage del Maestro, hanno potuto vedere ciò di cui parlo, e sono certamente cambiati, nel modo di eseguire e ricevere le tecniche, nell'ammirare il grande shihan e il suo pupillo in azione.
La didattica di sovraumana chiarezza ed efficacia del Maestro sono state fatte proprie da Montenegro in maniera pressochè pedissequa, cosicchè in lui io ritrovo sostanzialmente tutto ciò che mi ha fatto innamorare dello stile del Maestro, la cui unicità, ritengo, era sì nella incredibile genialità dell'esecuzione, ma anche e soprattutto nella corrispondente mostruosa capacità di spiegare, illustrare chiaramente, trasmettere quell'immenso sapere.
E' stato un enorme piacere ospitarlo lo scorso anno, e spero e credo che continuerò ad invitarlo, perchè è un insegnante speciale, con un sapere speciale ed una dedizione alla disciplina ammirevole.
Crescerà ancora.
Ha qualità certamente fuori dal comune.
Spero accorriate, mettendo da parte la pigrizia e valorizzando la curiosità di vedere all'opera un testimone assolutamente unico e privilegiato dell'operato e degli insegnamenti di un genio assoluto quale era il Maestro Fujimoto.
Vi aspetto.
Daniele è stato per oltre dieci anni assistente e straordinario uke del Maestro Fujimoto.
Con la sua impressionante abilità ha permesso al Maestro di esprimersi al massimo delle sue possibilità, consentendogli di ricercare e mostrare vette sino ad allora mai esplorate della esecuzione aikidoistica.
Le movenze di Montenegro ricordano in maniera impressionante lo stile del Maestro, la sua pulizia ed eleganza,e costituiscono a mio avviso un eccezionale patrimonio dell'aikido italiano, e dell'aikikai in specie, che dovremmo tutti noi, e soprattutto gli istruttori, valorizzare e incoraggiare.
Per chi non li avesse visti dal vivo all'opera, dirò che a mio giudizio la "coppia" Fujimoto Montenegro ha rappresentato qualcosa che si avvicina incredibilmente alla perfezione.
Il modo in cui il Maestro è riuscito a plasmare questo "ragazzo" di trent'anni, la strabiliante armonia che questi due personaggi riuscivano ad esprimere nella illustrazione delle tecniche, è qualcosa che rimarrà sempre nei miei occhi, come l'approdo al quale aspirare, e l'obiettivo di una carriera.
Gli aikidoisti di mezza Europa, e con essi quelli sudafricani e di altre parti del mondo che accorrevano agli stage del Maestro, hanno potuto vedere ciò di cui parlo, e sono certamente cambiati, nel modo di eseguire e ricevere le tecniche, nell'ammirare il grande shihan e il suo pupillo in azione.
La didattica di sovraumana chiarezza ed efficacia del Maestro sono state fatte proprie da Montenegro in maniera pressochè pedissequa, cosicchè in lui io ritrovo sostanzialmente tutto ciò che mi ha fatto innamorare dello stile del Maestro, la cui unicità, ritengo, era sì nella incredibile genialità dell'esecuzione, ma anche e soprattutto nella corrispondente mostruosa capacità di spiegare, illustrare chiaramente, trasmettere quell'immenso sapere.
E' stato un enorme piacere ospitarlo lo scorso anno, e spero e credo che continuerò ad invitarlo, perchè è un insegnante speciale, con un sapere speciale ed una dedizione alla disciplina ammirevole.
Crescerà ancora.
Ha qualità certamente fuori dal comune.
Spero accorriate, mettendo da parte la pigrizia e valorizzando la curiosità di vedere all'opera un testimone assolutamente unico e privilegiato dell'operato e degli insegnamenti di un genio assoluto quale era il Maestro Fujimoto.
Vi aspetto.
sabato 29 settembre 2012
Aikido: di che si tratta.
Il primo post di questo blog consisteva semplicemente in un brano tratto da Wikipedia, scaricato per me da un amico, e che si intitolava "Cos'è l'Aikido".
Nel corso di questi (quasi) due anni, sono successe tantissime cose, e tra queste la perdita di un magnifico e incomparabile Maestro.
Credo di avere più volte parlato di cosa sia, a mio giudizio, l'aikido, ma vorrei cimentarmi in una spiegazione in qualche modo didattica, che mi rendo conto risulterà stucchevole ai più, ma che periosicamente è bene effettuare.
D'altro canto, la prima domanda che viene rivolta da chiunque si avvicini alla disciplina, magari venendo a scrutare una lezione, è sempre la stessa, ossia di che si tratti.
Aikido, allora, si compone di tre ideogrammi.
"Ai" è una contrazione del verbo awasu, e indica coordinamento, armonizzazione, equilibrio.
"Ki" è termine generalmente tradotto con energia, ma che può volere dire moltissime cose, costituendo una tipica espressione delle lingue orientali del periodo pre tecnologico, caratterizzate da una certa tendenza all'immaginifico e all'evocativo.
Ki allora potrebbe indicare ciò che è vitale, ma non necessariamente, poichè potrebbe dirsi anche che un luogo, anche se del tutto inanimato perchè composto ad esempio di sole rocce, "ha un suo ki".
In ambito aikidoistico e marziale, ki indica fondamentalmente una predisposizione di spirito, e uno stato mentale che permette a chi ne sia dotato di affrontare la vita e la eventuale morte (non necessariamente in battaglia) con coraggio, dignità, serenità.
Infine "do" sta a significare cammino di vita, percorso personale, o per antonomasia l'insegnamento che permette di compiere quel cammino.
Aikido allora potrebbe tradursi in molti modi, posto che non esistono interpretazioni autentiche fornite dal Fondatore.
Diciamo che può intendersi come la disciplina (intesa come complesso di conoscenze codificate e sistemate) marziale (e dunque fondata su tecniche di combattimento) che si propone di sviluppare nel praticante uno stato interiore che lo mantenga in armonia con sè e con ciò che lo circonda.
Come è possibile armonizzarsi con qualcuno che ci attacca con l'intento di sopraffarci?
La soluzione fornita dal Fondatore è quella di mettere a punto e applicare tecniche di pura neutralizzazione dell'attacco che ci viene rivolto, la cui finalità sia quella di respingere l'aggressione recando all'altro minore danno possibile.
Se l'intento tradizionale della tecnica di combattimento è quella di recare il maggior danno possibile nel minor tempo, l'aikido capovolge completamente l'approccio, prodigandosi per conseguire il risultato opposto.
Gli esercizi aikidoistici, allora, costituiscono il tentativo di realizzare questo ambiziosissimo fine, che è espresso dalla nota formula "impedire di ferire senza ferire".
Dunqe ai calci, pugni, gomitate o strangolamenti, l'aikidosista sostiutisce leve, sbilanciamenti, bloccaggi, mantenendo tuttavia le stesse evasioni dall'attacco proprie delle arti marziali tradizionali e con il fine di creare sempre quella situazione di vantaggio rispetto all'aggressore che è condizione perchè l'attacco possa essere neutralizzato.
L'aikido, allora, è pratica in questo senso autenticamente marziale, e come tale va fatta.
La situazione di armonia, infatti, non è frutto di un accordo che precede il contatto, ma è l'esito di una corretta applicazione della tecnica.
Se si smarrisce questo presupposto, l'aikido diventa una sorta di ginnastica che scimmiotta malamente altre attività.
Una specie di bio danza, o qualcosa del genere.
Uke e tori diventano due individui che tentano di realizzare una coreografia predeterminata, di nessuna efficacia difensiva, e inevitabilmente disattenta alle ragioni che generano quei movimenti, dei quali non si è in grado di ricostruire l'origine.
Questo fa sì che se qualcuno ci afferra, e lo fa con vigore, non si sia in grado di liberarsi.
Se qualcuno sferra un attacco non si sia in grado di sfuggirgli.
In quei casi, di fronte alla incapacità di mettere in atto una tecnica, si invoca la acquiescenza dell'altro, generalmente condendo la bizzarra richiesta di "resa" con tutto lo stupidario pseudo spiritualista proprio di alcune sottoculture religiose.
E' assai frequente sentirsi dire da un allampanato istruttore che non sa come liberare il suo polso da una presa energica che "non si deve combattere", o che "l'aikido è amore".
Nell'aikido non si combatte, e questo è assolutamente ovvio, perchè combattere è tutta un'altra cosa dalla pratica di due compagni di allenamento nel dojo.
L'aikido è amore perchè, come ho detto, si propone di realizzare lo straordinario risultato di neutralizzare l'attacco dell'altro, che è un attacco mosso con intento di ferire o uccidere, senza ricambiare quella volontà distruttiva con analoga distruzione.
Tuttavia bisogna saperlo fare. Altrimenti è un'altra cosa.
Occorre assolutamente evitare di trasformare la pratica in una religione un pò fricchettona, e i presupposti etici della disciplina in qualcosa che la stravolga malamente.
Sono scuse per non lavorare seriamente, e degenerazioni biasimevoli e pericolose verso forme di ginnastica spiritualistica che sono lontane anni luce dalle intenzioni del Fondatore e dalla vera cultura giapponese.
A presto.
Buon allenamento.
Nel corso di questi (quasi) due anni, sono successe tantissime cose, e tra queste la perdita di un magnifico e incomparabile Maestro.
Credo di avere più volte parlato di cosa sia, a mio giudizio, l'aikido, ma vorrei cimentarmi in una spiegazione in qualche modo didattica, che mi rendo conto risulterà stucchevole ai più, ma che periosicamente è bene effettuare.
D'altro canto, la prima domanda che viene rivolta da chiunque si avvicini alla disciplina, magari venendo a scrutare una lezione, è sempre la stessa, ossia di che si tratti.
Aikido, allora, si compone di tre ideogrammi.
"Ai" è una contrazione del verbo awasu, e indica coordinamento, armonizzazione, equilibrio.
"Ki" è termine generalmente tradotto con energia, ma che può volere dire moltissime cose, costituendo una tipica espressione delle lingue orientali del periodo pre tecnologico, caratterizzate da una certa tendenza all'immaginifico e all'evocativo.
Ki allora potrebbe indicare ciò che è vitale, ma non necessariamente, poichè potrebbe dirsi anche che un luogo, anche se del tutto inanimato perchè composto ad esempio di sole rocce, "ha un suo ki".
In ambito aikidoistico e marziale, ki indica fondamentalmente una predisposizione di spirito, e uno stato mentale che permette a chi ne sia dotato di affrontare la vita e la eventuale morte (non necessariamente in battaglia) con coraggio, dignità, serenità.
Infine "do" sta a significare cammino di vita, percorso personale, o per antonomasia l'insegnamento che permette di compiere quel cammino.
Aikido allora potrebbe tradursi in molti modi, posto che non esistono interpretazioni autentiche fornite dal Fondatore.
Diciamo che può intendersi come la disciplina (intesa come complesso di conoscenze codificate e sistemate) marziale (e dunque fondata su tecniche di combattimento) che si propone di sviluppare nel praticante uno stato interiore che lo mantenga in armonia con sè e con ciò che lo circonda.
Come è possibile armonizzarsi con qualcuno che ci attacca con l'intento di sopraffarci?
La soluzione fornita dal Fondatore è quella di mettere a punto e applicare tecniche di pura neutralizzazione dell'attacco che ci viene rivolto, la cui finalità sia quella di respingere l'aggressione recando all'altro minore danno possibile.
Se l'intento tradizionale della tecnica di combattimento è quella di recare il maggior danno possibile nel minor tempo, l'aikido capovolge completamente l'approccio, prodigandosi per conseguire il risultato opposto.
Gli esercizi aikidoistici, allora, costituiscono il tentativo di realizzare questo ambiziosissimo fine, che è espresso dalla nota formula "impedire di ferire senza ferire".
Dunqe ai calci, pugni, gomitate o strangolamenti, l'aikidosista sostiutisce leve, sbilanciamenti, bloccaggi, mantenendo tuttavia le stesse evasioni dall'attacco proprie delle arti marziali tradizionali e con il fine di creare sempre quella situazione di vantaggio rispetto all'aggressore che è condizione perchè l'attacco possa essere neutralizzato.
L'aikido, allora, è pratica in questo senso autenticamente marziale, e come tale va fatta.
La situazione di armonia, infatti, non è frutto di un accordo che precede il contatto, ma è l'esito di una corretta applicazione della tecnica.
Se si smarrisce questo presupposto, l'aikido diventa una sorta di ginnastica che scimmiotta malamente altre attività.
Una specie di bio danza, o qualcosa del genere.
Uke e tori diventano due individui che tentano di realizzare una coreografia predeterminata, di nessuna efficacia difensiva, e inevitabilmente disattenta alle ragioni che generano quei movimenti, dei quali non si è in grado di ricostruire l'origine.
Questo fa sì che se qualcuno ci afferra, e lo fa con vigore, non si sia in grado di liberarsi.
Se qualcuno sferra un attacco non si sia in grado di sfuggirgli.
In quei casi, di fronte alla incapacità di mettere in atto una tecnica, si invoca la acquiescenza dell'altro, generalmente condendo la bizzarra richiesta di "resa" con tutto lo stupidario pseudo spiritualista proprio di alcune sottoculture religiose.
E' assai frequente sentirsi dire da un allampanato istruttore che non sa come liberare il suo polso da una presa energica che "non si deve combattere", o che "l'aikido è amore".
Nell'aikido non si combatte, e questo è assolutamente ovvio, perchè combattere è tutta un'altra cosa dalla pratica di due compagni di allenamento nel dojo.
L'aikido è amore perchè, come ho detto, si propone di realizzare lo straordinario risultato di neutralizzare l'attacco dell'altro, che è un attacco mosso con intento di ferire o uccidere, senza ricambiare quella volontà distruttiva con analoga distruzione.
Tuttavia bisogna saperlo fare. Altrimenti è un'altra cosa.
Occorre assolutamente evitare di trasformare la pratica in una religione un pò fricchettona, e i presupposti etici della disciplina in qualcosa che la stravolga malamente.
Sono scuse per non lavorare seriamente, e degenerazioni biasimevoli e pericolose verso forme di ginnastica spiritualistica che sono lontane anni luce dalle intenzioni del Fondatore e dalla vera cultura giapponese.
A presto.
Buon allenamento.
sabato 1 settembre 2012
Nuova stagione alle porte.
Eccoci all'esordio di una nuova stagione aikidoistica.
E' oltre un mese e mezzo che non mi alleno e mai come quest'anno la pausa mi è pesata enormemente.
Come capitava quando andavo a scuola, si finisce per stilare una sorta di lista di buoni propositi, attese e aspettative per la stagione che viene.
Vorrei poter dire, al termine di questa annata, di essere significativamente migliorato nella mia tecnica, e di avere compiuto un passo ulteriore nel percorso di perfezionamento.
Spero di progredire nella mia capacità di trasmettere il sapere che altri mi hanno trasmesso, e in generale di essere all'altezza del mio ruolo di insegnante e della responsabilità che esso comporta.
Mi auguro di formare un gruppo di allievi compatto, possibilmente numeroso, e fatto di gente motivata, entustiasta, che mi segua negli stages che frequenterò nel corso dell'anno, o che comunque mi sostenga con quell'entusiasmo nei miei sforzi e nel mio impegno di istruttore.
Mi aspetto che il gruppo filiato dal Maestro Fujimoto si mantenga unito e fraterno, che esso non si disperda in egoismi e protagonismi dannosi e distruttivi, e che si faccia di tutto per perpetuare quello stile unico e magnifico del quale siamo custodi.
Auspico che ai raduni che intendo organizzare e promuovere affluisca più gente possibile, e che la città e la comunità aikidoistica tutta vi partecipino con generosità e passione.
Confido di essere in salute, e che si conservino sani e combattivi i miei istruttori e compagni di allenamento.
Questo spero per quest'anno.
Un grosso augurio a tutti di una stagione bellissima e feconda.
Luca
E' oltre un mese e mezzo che non mi alleno e mai come quest'anno la pausa mi è pesata enormemente.
Come capitava quando andavo a scuola, si finisce per stilare una sorta di lista di buoni propositi, attese e aspettative per la stagione che viene.
Vorrei poter dire, al termine di questa annata, di essere significativamente migliorato nella mia tecnica, e di avere compiuto un passo ulteriore nel percorso di perfezionamento.
Spero di progredire nella mia capacità di trasmettere il sapere che altri mi hanno trasmesso, e in generale di essere all'altezza del mio ruolo di insegnante e della responsabilità che esso comporta.
Mi auguro di formare un gruppo di allievi compatto, possibilmente numeroso, e fatto di gente motivata, entustiasta, che mi segua negli stages che frequenterò nel corso dell'anno, o che comunque mi sostenga con quell'entusiasmo nei miei sforzi e nel mio impegno di istruttore.
Mi aspetto che il gruppo filiato dal Maestro Fujimoto si mantenga unito e fraterno, che esso non si disperda in egoismi e protagonismi dannosi e distruttivi, e che si faccia di tutto per perpetuare quello stile unico e magnifico del quale siamo custodi.
Auspico che ai raduni che intendo organizzare e promuovere affluisca più gente possibile, e che la città e la comunità aikidoistica tutta vi partecipino con generosità e passione.
Confido di essere in salute, e che si conservino sani e combattivi i miei istruttori e compagni di allenamento.
Questo spero per quest'anno.
Un grosso augurio a tutti di una stagione bellissima e feconda.
Luca
domenica 15 luglio 2012
Laces, raduno 2012
Il raduno si è svolto anche quest'anno, ed è stato un successo.
Iniziato con una certa mestizia, ha preso sempre più consistenza con il passare delle giornate.
Gli insegnanti hanno trovato coraggio, sempre più, e hanno dato progressivamente maggiore chiarezza, autorevolezza e contenuto alle loro lezioni.
Quando sono andato via, fatto del quale non vado orgoglioso, e avendo partecipato soltanto alle prime cinque (delle otto) giornate di allenamento, ero dispiaciuto e roso dalla voglia di rimanere e di praticare.
E' questo il segnale, penso di poter dire, che il raduno funzionava, appassionava, e avrei voluto che andasse avanti ancora per giorni.
Rimane uno stage a rischio, perchè ha "nemici" esterni ed interni.
Tuttavia, ha dato, questo gruppo, un esaltante segno di vitalità e forza, che forse non mi sarei aspettato.
Eravamo in centinaia, certo meno dei tempi del Maestro, ma comunque tantissimi, e come quando c'era lui sono arrivati russi, sudafricani, tedeschi, il che connota lo stage di Laces per quello che è e deve rimanere, ossia un meeting internazionale.
Il lavoro didattico ha rappresentato un ritorno alla base, con il dichiarato intento di riprendere le linee fondamentali dell'aikido del Maestro, e recuperare in maniera decisa il rapporto tra i movimenti chiave (shi ho giri e ikkyo undo su tutti) e i waza propriamente detti.
Come accade in questo stage unico, si è partiti dalle tecniche apparentemente più semplici, per esempio gyaku hanmi katatetori ikkyo, risalendo man mano a quelle più complesse (quando sono andato via stavamo lavorando, ad esempio, su ushiro eri dori irimi nage, e varie forme di tachi dori).
Abbiamo lavorato, come accadeva prima della malattia del Maestro, moltissimo in suwariwaza e hanmi hantachi waza, il che mi ha ricordato tempi felici, con i durissimi allenamenti che ci riservava lui, che in ginocchio aveva una agilità e una pulizia impressionante e direi sovraumana.
Foglietta lo conosco meglio, con la sua grinta e la sua esperienza antica, molto importante anche in termini di tutela del passato e testimonianza della evoluzione del Maestro.
Bravissimo Travaglini, che mi sembra quello che è più maturato negli ultimi tempi, e che ho l'impressione che abbia ulteriori margini di crescita, direi anche umani.
Si muove magnificamente, e sono certo che, come d'altro canto è accaduto anche con Fujimoto sensei, con il passare del tempo diventerà anche meno spigoloso e sempre più pulito nell'esecuzione.
In sintesi, è stato tutto molto credibile, e questo non era certo che si verificasse.
Bravi gli istruttori, che vedevo tesi e preoccupati prima di iniziare e nei primi giorni.
Magnifico il Maestro, che ha lavorato negli ultmi due anni proprio per questo risultato, formando e dando corpo ad un gruppo che si muove unito, coeso, e deciso a non disperdere quell'immenso patrimonio di conoscenze che era Fujimoto shihan.
Sarebbe stato, ne sono assolutamente sicuro, felice e soddisfatto di vedere tutto questo.
Dobbiamo andare avanti, perchè dalla sopravvivenza di Laces e dell'altro raduno di Natale dipende molto della sopravvivenza di questa esperienza storica, della quale noi aikidoisti italiani siamo i fortunati custodi.
Mi auguro, con tutto il cuore, che anche chi non c'era torni ad affacciarsi, non solo per "dovere", ma piuttosto perchè questi raduni sono divertenti e bellissimi.
Tutti dobbiamo continuare a imparare, altrimenti il cammino si interrompe.
Gli esami, come siano andati, non lo so e non mi importa poi molto.
Non vedo l'ora di ricominciare a praticare, e già penso a quando tornerò a Laces, con i suoi tedeschi gentili, le sue distese di meleti, e il suo stage lungo, faticoso, e splendido.
Buona estate, torniamo a settembre.
Luca.
Iniziato con una certa mestizia, ha preso sempre più consistenza con il passare delle giornate.
Gli insegnanti hanno trovato coraggio, sempre più, e hanno dato progressivamente maggiore chiarezza, autorevolezza e contenuto alle loro lezioni.
Quando sono andato via, fatto del quale non vado orgoglioso, e avendo partecipato soltanto alle prime cinque (delle otto) giornate di allenamento, ero dispiaciuto e roso dalla voglia di rimanere e di praticare.
E' questo il segnale, penso di poter dire, che il raduno funzionava, appassionava, e avrei voluto che andasse avanti ancora per giorni.
Rimane uno stage a rischio, perchè ha "nemici" esterni ed interni.
Tuttavia, ha dato, questo gruppo, un esaltante segno di vitalità e forza, che forse non mi sarei aspettato.
Eravamo in centinaia, certo meno dei tempi del Maestro, ma comunque tantissimi, e come quando c'era lui sono arrivati russi, sudafricani, tedeschi, il che connota lo stage di Laces per quello che è e deve rimanere, ossia un meeting internazionale.
Il lavoro didattico ha rappresentato un ritorno alla base, con il dichiarato intento di riprendere le linee fondamentali dell'aikido del Maestro, e recuperare in maniera decisa il rapporto tra i movimenti chiave (shi ho giri e ikkyo undo su tutti) e i waza propriamente detti.
Come accade in questo stage unico, si è partiti dalle tecniche apparentemente più semplici, per esempio gyaku hanmi katatetori ikkyo, risalendo man mano a quelle più complesse (quando sono andato via stavamo lavorando, ad esempio, su ushiro eri dori irimi nage, e varie forme di tachi dori).
Abbiamo lavorato, come accadeva prima della malattia del Maestro, moltissimo in suwariwaza e hanmi hantachi waza, il che mi ha ricordato tempi felici, con i durissimi allenamenti che ci riservava lui, che in ginocchio aveva una agilità e una pulizia impressionante e direi sovraumana.
Foglietta lo conosco meglio, con la sua grinta e la sua esperienza antica, molto importante anche in termini di tutela del passato e testimonianza della evoluzione del Maestro.
Bravissimo Travaglini, che mi sembra quello che è più maturato negli ultimi tempi, e che ho l'impressione che abbia ulteriori margini di crescita, direi anche umani.
Si muove magnificamente, e sono certo che, come d'altro canto è accaduto anche con Fujimoto sensei, con il passare del tempo diventerà anche meno spigoloso e sempre più pulito nell'esecuzione.
In sintesi, è stato tutto molto credibile, e questo non era certo che si verificasse.
Bravi gli istruttori, che vedevo tesi e preoccupati prima di iniziare e nei primi giorni.
Magnifico il Maestro, che ha lavorato negli ultmi due anni proprio per questo risultato, formando e dando corpo ad un gruppo che si muove unito, coeso, e deciso a non disperdere quell'immenso patrimonio di conoscenze che era Fujimoto shihan.
Sarebbe stato, ne sono assolutamente sicuro, felice e soddisfatto di vedere tutto questo.
Dobbiamo andare avanti, perchè dalla sopravvivenza di Laces e dell'altro raduno di Natale dipende molto della sopravvivenza di questa esperienza storica, della quale noi aikidoisti italiani siamo i fortunati custodi.
Mi auguro, con tutto il cuore, che anche chi non c'era torni ad affacciarsi, non solo per "dovere", ma piuttosto perchè questi raduni sono divertenti e bellissimi.
Tutti dobbiamo continuare a imparare, altrimenti il cammino si interrompe.
Gli esami, come siano andati, non lo so e non mi importa poi molto.
Non vedo l'ora di ricominciare a praticare, e già penso a quando tornerò a Laces, con i suoi tedeschi gentili, le sue distese di meleti, e il suo stage lungo, faticoso, e splendido.
Buona estate, torniamo a settembre.
Luca.
sabato 16 giugno 2012
Cambio di prospettiva
Ora che si approssima Laces, viene da chiedersi cosa ne sarà di questo stage entro qualche anno.
Per chi non ci fosse mai stato, Laces è un posto magnifico, verdissimo e nel cuore della val Venosta, presso il quale si è tenuto, credo dal 1989, un raduno bellissimo, partito in sordina e poi cresciuto sempre più, e che ha finito per assumere un valore straordinariamente alto sotto il profilo tecnico e una gigantesca portata simbolica.
Questo per diverse ragioni.
La (quasi) concomitanza con quello ligure è certamente una di queste, per quanto abbastanza residuale.
E' diventato così importante perchè, penso, lo stesso Maestro Fujimoto vi ha progressivamente investito sempre maggiori sforzi e impiegato sempre crescente dedizione, facendone il suo gioiello più perfetto, un vero e proprio manifesto del suo aikido.
Con l'improvviso manifestarsi della malattia, poi, Laces è divenuto qualcosa di più, una sorta di adunata generale, nella quale tutto il gruppo veniva riunito per vedere il suo leader, avvolgerlo in un abbraccio, ascoltare le sue disposizioni per il futuro che avevano sempre più qualcosa di "testamentario".
Gli ultimi anni dello stage sono stati anche questo, un profondo momento di vicinanza e quasi compenetrazione tra il sensei e il gruppo, e hanno avuto qualcosa direi di sacrale, in senso giapponese e laico del termine.
Il Maestro, d'altro canto, ha sempre parlato della sua prossima fine, con dolore assai ben celato e una lucidità e serenità impressionanti, utilizzando lo stage come il momento principale di preparazione della sua successione.
Ora, lui da qualche mese non c'è più.
Ha sempre detto che voleva che Laces andasse avanti, questo era un suo grande e sentito desiderio, ben sapendo che alla sua imminente morte sarebbe potuto seguire un momento di grande sbandamento.
Naturalmente, il vuoto è enorme e non esito a dire sostanzialmente incolmabile.
D'altro canto chi ha avuto, dal Maestro stesso ed espressamente, l'incarico di sostituirlo, non si sogna neppure di potervi sopperire.
Allora, perchè dovremmo andare a Laces, spendere soldi e tempo per partecipare ad un seminario che "era" il Maestro, e che con la sua scomparsa sembrerebbe non avere più alcun senso.
Il perchè, a mio giudizio, è molto semplice.
Dobbiamo andarci perchè quello sarà la nursery delle nuove leve, lo strumento principale della conservazione dell'aikido del maestro Fujimoto.
E' quello il luogo principale nel quale la comunità dei praticanti che hanno seguito questo immenso shihan, dovrà ritrovarsi per perpetuare quello stile, migliorarsi, sentirsi unita e compatta.
Non dobbiamo cercare in chi terrà gli allenamenti il Maestro in una sorta di nuova personificazione, ma delle guide alle quali è stato affidato il compito di trasmettere quel metodo in modo che, un domani forse vicinissimo e forse lontano, possa emergere davvero un nuovo Fujimoto.
Probabilmente già c'è, questa persona, ed è un ragazzino che ha fatto una sola lezione, o magari deve ancora iscriversi.
Forse non arriverà per diverse generazioni, e io andrò via senza averlo mai incontrato e visto.
Naturalmente non lo so.
Ecco perchè è necessario un cambio di prospettiva, che ove non vi fosse segnerebbe la certa fine di questo gruppo, e con esso, alla lunga, dello stesso aikido del Maestro.
E' illusorio, a mio giudizio, pensare che possiamo nel piccolo del nostro dojo, con le sole nostre forze, perpetuare uno stile, un approccio unico come quello che abbiamo studiato.
Finiremo per dimenticare, fraintendere, o quanto meno, realisticamente, le nostre conoscenze e i nostri ricordi finiranno con noi, o con il nostro migliore allievo nella generazione successiva.
Conserviamo con generosità Laces, e ciò non soltanto come ossequio alla volontà del Maestro morente (sentimenti come questo non durano abbastanza nel tempo), ma perchè questo stage è lo strumento principale perchè la stessa presenza di questo magnifico shihan non vada, alla lunga, perduta con tutta la sua inestimabile bellezza e tutto il suo inenarrabile valore.
Sono fiducioso. A presto.
Per chi non ci fosse mai stato, Laces è un posto magnifico, verdissimo e nel cuore della val Venosta, presso il quale si è tenuto, credo dal 1989, un raduno bellissimo, partito in sordina e poi cresciuto sempre più, e che ha finito per assumere un valore straordinariamente alto sotto il profilo tecnico e una gigantesca portata simbolica.
Questo per diverse ragioni.
La (quasi) concomitanza con quello ligure è certamente una di queste, per quanto abbastanza residuale.
E' diventato così importante perchè, penso, lo stesso Maestro Fujimoto vi ha progressivamente investito sempre maggiori sforzi e impiegato sempre crescente dedizione, facendone il suo gioiello più perfetto, un vero e proprio manifesto del suo aikido.
Con l'improvviso manifestarsi della malattia, poi, Laces è divenuto qualcosa di più, una sorta di adunata generale, nella quale tutto il gruppo veniva riunito per vedere il suo leader, avvolgerlo in un abbraccio, ascoltare le sue disposizioni per il futuro che avevano sempre più qualcosa di "testamentario".
Gli ultimi anni dello stage sono stati anche questo, un profondo momento di vicinanza e quasi compenetrazione tra il sensei e il gruppo, e hanno avuto qualcosa direi di sacrale, in senso giapponese e laico del termine.
Il Maestro, d'altro canto, ha sempre parlato della sua prossima fine, con dolore assai ben celato e una lucidità e serenità impressionanti, utilizzando lo stage come il momento principale di preparazione della sua successione.
Ora, lui da qualche mese non c'è più.
Ha sempre detto che voleva che Laces andasse avanti, questo era un suo grande e sentito desiderio, ben sapendo che alla sua imminente morte sarebbe potuto seguire un momento di grande sbandamento.
Naturalmente, il vuoto è enorme e non esito a dire sostanzialmente incolmabile.
D'altro canto chi ha avuto, dal Maestro stesso ed espressamente, l'incarico di sostituirlo, non si sogna neppure di potervi sopperire.
Allora, perchè dovremmo andare a Laces, spendere soldi e tempo per partecipare ad un seminario che "era" il Maestro, e che con la sua scomparsa sembrerebbe non avere più alcun senso.
Il perchè, a mio giudizio, è molto semplice.
Dobbiamo andarci perchè quello sarà la nursery delle nuove leve, lo strumento principale della conservazione dell'aikido del maestro Fujimoto.
E' quello il luogo principale nel quale la comunità dei praticanti che hanno seguito questo immenso shihan, dovrà ritrovarsi per perpetuare quello stile, migliorarsi, sentirsi unita e compatta.
Non dobbiamo cercare in chi terrà gli allenamenti il Maestro in una sorta di nuova personificazione, ma delle guide alle quali è stato affidato il compito di trasmettere quel metodo in modo che, un domani forse vicinissimo e forse lontano, possa emergere davvero un nuovo Fujimoto.
Probabilmente già c'è, questa persona, ed è un ragazzino che ha fatto una sola lezione, o magari deve ancora iscriversi.
Forse non arriverà per diverse generazioni, e io andrò via senza averlo mai incontrato e visto.
Naturalmente non lo so.
Ecco perchè è necessario un cambio di prospettiva, che ove non vi fosse segnerebbe la certa fine di questo gruppo, e con esso, alla lunga, dello stesso aikido del Maestro.
E' illusorio, a mio giudizio, pensare che possiamo nel piccolo del nostro dojo, con le sole nostre forze, perpetuare uno stile, un approccio unico come quello che abbiamo studiato.
Finiremo per dimenticare, fraintendere, o quanto meno, realisticamente, le nostre conoscenze e i nostri ricordi finiranno con noi, o con il nostro migliore allievo nella generazione successiva.
Conserviamo con generosità Laces, e ciò non soltanto come ossequio alla volontà del Maestro morente (sentimenti come questo non durano abbastanza nel tempo), ma perchè questo stage è lo strumento principale perchè la stessa presenza di questo magnifico shihan non vada, alla lunga, perduta con tutta la sua inestimabile bellezza e tutto il suo inenarrabile valore.
Sono fiducioso. A presto.
sabato 12 maggio 2012
La nozione di impossibile
Qualche mese fa, se non ricordo male nello stage che tenne a Milano nel novembre scorso (per inciso, uno dei raduni e lezioni più belle cui mi sia capitato di assistere), il Maestro Fujimoto ebbe a riprendere alcuni ritardatari (che per di più indossavano l'hakama).
Non era più da tempo il Fujimoto delle ramanzine furiose e anche un pò estreme.
Con il tempo, e poi con la malattia, era diventato molto più dolce e paterno.
Tuttavia, quei ritardatari erano anche piuttosto rumorosi nell'arrivare, e qualcuno di loro era inoltre salito di soppiatto sul tatami, fatto, questo, tendenzialmente inammissibile e irriguardoso.
Il Maestro allora si rivolse loro riprendendoli, e colse l'occasione per fare di quel momento una lezione nella lezione, una di quelle cose che rendono un Maestro tale.
Dopo averli blandamente richiamati, si rivolse a tutti noi e disse che c'era una differenza tra gli italiani e i giapponesi quando si trovano a fare tardi ad un appuntamento.
I giapponesi, disse, non si giustificano, qualsiasi cosa sia loro successa nel giungere a quell'appuntamento.
Magari, disse il Maestro, gli hanno sparato per strada, o sono stati coinvolti in un maxi tamponamento, ma se loro arrivano in ritardo, come che sia, si profondono in scuse incondizionate, perchè hanno mancato ad un impegno preso.
Perchè sia accaduto non conta niente.
Proseguì invece Fujimoto sensei raccontando che una cosa che lo aveva immediatamente colpito sin dai suoi primi tempi in Italia era la tendenza degli italiani a giustificarsi.
Ho fatto tardi per questo, non sono potuto arrivare per quest'altro.
Lo aveva sempre trovato curioso e, per la sua sensibilità di giapponese, incomprensibile.
Lui disse allora, ad un certo punto, che se avesse detto a tutti noi, in quel momento, che l'indomani mattina, alle cinque, si sarebbe materializzato per un momento e del tutto miracolosamente O sensei in persona, tutti avremmo fatto l'impossibile per esserci, a costo di non dormire, non tornare a casa, o avviarci tre ore prima o anche più da qualunque provenienza.
Un pò scherzava e molto era serio, come era quasi sempre lui.
Ora, al di là della storiella sui giapponesi e gli italiani, e sulla apparizione di O sensei, quello che voleva dire era che di veramente impossibile c'è molto poco, e che la frase "non posso" è una delle più abusate.
Chi vuole davvero praticare (per tornare al nostro contesto, quello nel quale la nozione di impossibilità è tra le più impropriamente richiamate) ha normalmente, e se davvero vuole, certamente la possibilità di farlo.
D'altro canto, ho visto il Maestro allenarsi e tenere stage sino all'ultimo, e soprattutto l'ho visto, oramai del tutto prostrato e divorato dalla malattia (allo stage di Natale del 2011, l'ultimo prima della morte, quando già non era assolutamente in condizione di allenarsi), presentarsi a condurre gli esami da fuori al tatami, e poi, stravolto dal dolore e dalla fatica, consegnare i diplomi ossequiando tutta la cerimonia di consegna, in seiza per almeno trenta minuti, con una dignità e decoro eccezionali.
Quell'uomo stava morendo, lo sapeva perfettamente lui e tutti quelli che gli erano intorno, e tuttavia doveva portare a termine quello che comportava il suo ruolo.
Poteva certamente delegare altri di quella consegna, ma doveva farlo lui.
Posso solo immaginare quanto gli sia costata quella cerimonia e quelle apparizioni a bordo tatami, ma quello che posso dire è che non uso quasi più l'aggettivo "impossibile".
Nè riferito a me, nè riferito agli altri, che spesso lo usano nel parlare con me.
Provo anzi fastidio nel sentire quel termine abusato e inflazionato.
Sentire "non posso perchè mi fa male il braccio", oppure "non posso perchè devo fare questa cosa", e così via.
Fate la prova della apparizione miracolosa di O sensei.
Cosa sareste disposti a fare in quel caso?
Quasi tutto, vero?
Ecco, forse quello è il limite dell'impossibilità.
Dopo di che, possiamo fare o non fare qualcosa, siamo evidentemente liberi di decidere.
Ma dipende da noi, è soltanto una scala di priorità che ci siamo dati.
E il risultato è quello che vogliamo fare, non quello che possiamo.
A presto.
Non era più da tempo il Fujimoto delle ramanzine furiose e anche un pò estreme.
Con il tempo, e poi con la malattia, era diventato molto più dolce e paterno.
Tuttavia, quei ritardatari erano anche piuttosto rumorosi nell'arrivare, e qualcuno di loro era inoltre salito di soppiatto sul tatami, fatto, questo, tendenzialmente inammissibile e irriguardoso.
Il Maestro allora si rivolse loro riprendendoli, e colse l'occasione per fare di quel momento una lezione nella lezione, una di quelle cose che rendono un Maestro tale.
Dopo averli blandamente richiamati, si rivolse a tutti noi e disse che c'era una differenza tra gli italiani e i giapponesi quando si trovano a fare tardi ad un appuntamento.
I giapponesi, disse, non si giustificano, qualsiasi cosa sia loro successa nel giungere a quell'appuntamento.
Magari, disse il Maestro, gli hanno sparato per strada, o sono stati coinvolti in un maxi tamponamento, ma se loro arrivano in ritardo, come che sia, si profondono in scuse incondizionate, perchè hanno mancato ad un impegno preso.
Perchè sia accaduto non conta niente.
Proseguì invece Fujimoto sensei raccontando che una cosa che lo aveva immediatamente colpito sin dai suoi primi tempi in Italia era la tendenza degli italiani a giustificarsi.
Ho fatto tardi per questo, non sono potuto arrivare per quest'altro.
Lo aveva sempre trovato curioso e, per la sua sensibilità di giapponese, incomprensibile.
Lui disse allora, ad un certo punto, che se avesse detto a tutti noi, in quel momento, che l'indomani mattina, alle cinque, si sarebbe materializzato per un momento e del tutto miracolosamente O sensei in persona, tutti avremmo fatto l'impossibile per esserci, a costo di non dormire, non tornare a casa, o avviarci tre ore prima o anche più da qualunque provenienza.
Un pò scherzava e molto era serio, come era quasi sempre lui.
Ora, al di là della storiella sui giapponesi e gli italiani, e sulla apparizione di O sensei, quello che voleva dire era che di veramente impossibile c'è molto poco, e che la frase "non posso" è una delle più abusate.
Chi vuole davvero praticare (per tornare al nostro contesto, quello nel quale la nozione di impossibilità è tra le più impropriamente richiamate) ha normalmente, e se davvero vuole, certamente la possibilità di farlo.
D'altro canto, ho visto il Maestro allenarsi e tenere stage sino all'ultimo, e soprattutto l'ho visto, oramai del tutto prostrato e divorato dalla malattia (allo stage di Natale del 2011, l'ultimo prima della morte, quando già non era assolutamente in condizione di allenarsi), presentarsi a condurre gli esami da fuori al tatami, e poi, stravolto dal dolore e dalla fatica, consegnare i diplomi ossequiando tutta la cerimonia di consegna, in seiza per almeno trenta minuti, con una dignità e decoro eccezionali.
Quell'uomo stava morendo, lo sapeva perfettamente lui e tutti quelli che gli erano intorno, e tuttavia doveva portare a termine quello che comportava il suo ruolo.
Poteva certamente delegare altri di quella consegna, ma doveva farlo lui.
Posso solo immaginare quanto gli sia costata quella cerimonia e quelle apparizioni a bordo tatami, ma quello che posso dire è che non uso quasi più l'aggettivo "impossibile".
Nè riferito a me, nè riferito agli altri, che spesso lo usano nel parlare con me.
Provo anzi fastidio nel sentire quel termine abusato e inflazionato.
Sentire "non posso perchè mi fa male il braccio", oppure "non posso perchè devo fare questa cosa", e così via.
Fate la prova della apparizione miracolosa di O sensei.
Cosa sareste disposti a fare in quel caso?
Quasi tutto, vero?
Ecco, forse quello è il limite dell'impossibilità.
Dopo di che, possiamo fare o non fare qualcosa, siamo evidentemente liberi di decidere.
Ma dipende da noi, è soltanto una scala di priorità che ci siamo dati.
E il risultato è quello che vogliamo fare, non quello che possiamo.
A presto.
mercoledì 25 aprile 2012
Istruttori e studenti
Chiunque si avvicini allo studio delle discipline di origine marziale, soprattutto se filtrate alla luce dell'esperienza giapponese, viene a contatto con la figura del sensei.
Più in generale, entra in un mondo che assegna a questa figura, quella dell'insegnante, un ruolo piuttosto anomalo per la sensibilità occidentale, almeno quella contemporanea.
Al sensei, difatti, quale detentore del sapere e strumento di trasmissione della conoscenza, si deve rispetto ma anche in qualche misura devozione.
Si tratta di un evidente portato della cultura cinese e confuciana in particolare, che il Giappone ha recepito con zelo e arricchito, come sempre, di propri spunti e letture originali.
Sensei, letteralmente, vuol dire "nato prima", dunque anziano, ma anche professore, o prete.
Vi sono alcune espressioni, facili ad ascoltarsi nel parlato nipponico, che rendono plasticamente questo aspetto.
Lo studente dice, ad esempio, "sensei ga osshaemashita", ovverosia "Il Maestro ha detto questo", il che in qualche modo chiude la discussione, è un argomento di pura autorità, che indica che la nostra guida, un sapiente, si è espresso, e tanto tendenzialmente, è sufficiente.
Oppure, si dice "sensei ni o makase shimashita", ovverosia "ho lasciato che giudicasse, che decidesse per me il mio Maestro".
Il verbo "makaseru", difatti, indica una fidarsi pieno e incondizionato del giudizio e delle valutazioni di qualcun altro.
Il rischio, in tale tipo di atteggiamento, è evidentemente quello di una sorta di cieca dedizione dell'allievo all'insegnante, che annulla qualsiasi spirito critico nel primo, rendendolo un entusiasta e aprioristico seguace di un altro individuo al quale ha giurato ossequio, piuttosto che chiedergli di formarlo e renderlo adulto, con tutte le conseguenze deleterie che ciò comporta.
D'altro canto, un correlativo rischio incombe sullo stesso sensei, portato a percepirsi come infallibile, adorato, e ad innamorarsi del suo status di guida incondizionata, e dunque ad insuperbirsi disastrosamente.
Eppure, il ruolo del sensei e lo stesso concetto di makaseru non sono da rifiutarsi in blocco, ma piuttosto da vivere con buon senso e intelligenza.
Occorre evitare gli aspetti deleteri di un rapporto di assoggettamento, sempre negativo, e intendere invece in maniera sana i termini del rapporto "studente-insegnante".
Il primo, appunto, deve fidarsi, o se preferite affidarsi, ma senza rinunciare ad un vaglio sanamente critico sul lavoro e sulla condotta della sua guida, senza rinunciare a pensare.
Difficile capire dove finisce un positivo e necessario affidamento e comincia la devozione acritica.
Ogni tanto, consiglierei, frequentate altri insegnanti.
Cambiate ambiente, o comunque non isolatevi.
Verificate che ciò che il sensei dice a voi di fare sia ciò che egli stesso fa.
Siate severi di fronte ad un istruttore autoritario e prepotente, accettando tuttavia un piglio deciso e il rimprovero, perchè fanno parte del rapporto docente-discente.
D'altro canto, non mettete sempre tutto in discussione.
Seguite ciò che il sensei vi chiede di fare, perchè altrimenti è impossibile trasmettere e apprendere conoscenza.
L'insegnante, poi, stia attento, anzi attentissimo, a non cadere vittima dei demoni dell'appagamento, della superbia, dell'autoritarismo.
Non innamorarsi di sè, non rendersi ridicolo scimmiottando il grande Maestro giapponese che appartiene ad un'altra cultura e sensibilità, ed è portatore di una sapienza antica e tendenzialmente irriproducibile.
Difficile fare quadrare il cerchio.
Ci vuole, appunto, buon senso, intelligenza.
Occorre, in ultima analisi, non distrarsi dallo studio della disciplina, perchè chi studia l'aikido con amore e con devozione non ha tempo di dedicarsi o dedicare tempo e risorse al culto della propria o altrui personalità.
Deve pensare alle cose serie, a imparare.
Buon allenamento a tutti.
Più in generale, entra in un mondo che assegna a questa figura, quella dell'insegnante, un ruolo piuttosto anomalo per la sensibilità occidentale, almeno quella contemporanea.
Al sensei, difatti, quale detentore del sapere e strumento di trasmissione della conoscenza, si deve rispetto ma anche in qualche misura devozione.
Si tratta di un evidente portato della cultura cinese e confuciana in particolare, che il Giappone ha recepito con zelo e arricchito, come sempre, di propri spunti e letture originali.
Sensei, letteralmente, vuol dire "nato prima", dunque anziano, ma anche professore, o prete.
Vi sono alcune espressioni, facili ad ascoltarsi nel parlato nipponico, che rendono plasticamente questo aspetto.
Lo studente dice, ad esempio, "sensei ga osshaemashita", ovverosia "Il Maestro ha detto questo", il che in qualche modo chiude la discussione, è un argomento di pura autorità, che indica che la nostra guida, un sapiente, si è espresso, e tanto tendenzialmente, è sufficiente.
Oppure, si dice "sensei ni o makase shimashita", ovverosia "ho lasciato che giudicasse, che decidesse per me il mio Maestro".
Il verbo "makaseru", difatti, indica una fidarsi pieno e incondizionato del giudizio e delle valutazioni di qualcun altro.
Il rischio, in tale tipo di atteggiamento, è evidentemente quello di una sorta di cieca dedizione dell'allievo all'insegnante, che annulla qualsiasi spirito critico nel primo, rendendolo un entusiasta e aprioristico seguace di un altro individuo al quale ha giurato ossequio, piuttosto che chiedergli di formarlo e renderlo adulto, con tutte le conseguenze deleterie che ciò comporta.
D'altro canto, un correlativo rischio incombe sullo stesso sensei, portato a percepirsi come infallibile, adorato, e ad innamorarsi del suo status di guida incondizionata, e dunque ad insuperbirsi disastrosamente.
Eppure, il ruolo del sensei e lo stesso concetto di makaseru non sono da rifiutarsi in blocco, ma piuttosto da vivere con buon senso e intelligenza.
Occorre evitare gli aspetti deleteri di un rapporto di assoggettamento, sempre negativo, e intendere invece in maniera sana i termini del rapporto "studente-insegnante".
Il primo, appunto, deve fidarsi, o se preferite affidarsi, ma senza rinunciare ad un vaglio sanamente critico sul lavoro e sulla condotta della sua guida, senza rinunciare a pensare.
Difficile capire dove finisce un positivo e necessario affidamento e comincia la devozione acritica.
Ogni tanto, consiglierei, frequentate altri insegnanti.
Cambiate ambiente, o comunque non isolatevi.
Verificate che ciò che il sensei dice a voi di fare sia ciò che egli stesso fa.
Siate severi di fronte ad un istruttore autoritario e prepotente, accettando tuttavia un piglio deciso e il rimprovero, perchè fanno parte del rapporto docente-discente.
D'altro canto, non mettete sempre tutto in discussione.
Seguite ciò che il sensei vi chiede di fare, perchè altrimenti è impossibile trasmettere e apprendere conoscenza.
L'insegnante, poi, stia attento, anzi attentissimo, a non cadere vittima dei demoni dell'appagamento, della superbia, dell'autoritarismo.
Non innamorarsi di sè, non rendersi ridicolo scimmiottando il grande Maestro giapponese che appartiene ad un'altra cultura e sensibilità, ed è portatore di una sapienza antica e tendenzialmente irriproducibile.
Difficile fare quadrare il cerchio.
Ci vuole, appunto, buon senso, intelligenza.
Occorre, in ultima analisi, non distrarsi dallo studio della disciplina, perchè chi studia l'aikido con amore e con devozione non ha tempo di dedicarsi o dedicare tempo e risorse al culto della propria o altrui personalità.
Deve pensare alle cose serie, a imparare.
Buon allenamento a tutti.
domenica 8 aprile 2012
Esami
In queste ore, tra oggi (Pasqua) e domani (pasquetta), si stanno svolgendo gli esami a Roma, officiati dall'ultimo Maestro tra quelli originariamente stanziati in Italia, ossia Tada Sensei.
L'approccio all'esame, soprattutto quando i livelli diventano più elevati, è uno dei nodi della pratica.
Gli aikidoisti si dividono, generalmente, tra coloro che non vedono l'ora di sottoporsi a quella prova, e quelli che invece lo rifuggono.
I primi, spesso, sono mossi da un divorante desiderio di vedersi riconosciuti, dalla comunità di praticanti, come persone che spiccano, si distinguono, desiderio di solito accompagnato da una inconfessata volontà di primazia e sovraordinazione quasi gerarchica.
I secondi, al contrario, sostengono di solito di essere disinteressati al progresso nei gradi, e di ritenere puerile un momento come quello dell'esame e del "passaggio di categoria", rivendicando un'etica superiore, vagamente zen, che li porta a non mostrare attaccamento nella umana gloria o vanagloria.
Le cose, mi pare, stanno in un altro modo.
Non credo si debba anelare all'esame, perchè esso, evidentemente, non è che una verifica della preparazione raggiunta, un riscontro ad un lavoro che si è svolto, o che al contrario non è stato sufficentemente assiduo e generoso (chi arde dal desiderio di fare l'esame, spesso, non si è mai sottoposto ad esami sufficientemente duri e severi).
Allo stesso modo, sostenere un esame costituisce un momento importante, sempre che sia un esame serio e apprezzabilmente probante, per la stessa ragione.
Nell'aikido, come è noto, non si combatte, e dunque manca (correttamente, per ragioni etiche e direi pratiche) il momento dello scontro al fine di verificare la nostra abilità.
L'esame è, in questo senso, un surrogato del combattimento.
Non lottiamo, evidentemente, contro qualcuno, ma contro di noi, la fatica, le mancanze conoscitive, le nostre assenze dagli allenamenti e la nostra pigrizia.
Nell'esame dobbiamo dare il massimo, ma questo prima e durante la verifica.
Farsi esaminare vuol dire prepararsi duramente, non risparmiarsi, vincere i demoni che sono in agguato in ogni momento della nostra vita, aikidoistica e non.
L'appagamento, la superbia, sentimenti questi che una pratica come quella aikidoistica rischia di alimentare (per il contesto e le modalità in cui si svolge) e che possono dominare la nostra psiche durante la pratica, vengono distrutti da un approccio serio e sereno all'esame, al quale dovremmo avvicinarci accettando anche l'eventualità di una bocciatura, di un fallimento.
Il valore di un aikidoista si vede anche da come affronta e vive il momento dell'esame.
E' quello il nostro combattimento, il "tempo del coraggio e del valore".
Dunque, bisogna che sia un evento duro, serio, faticoso, direi rischioso, quanto duro, faticoso e rischioso può essere un combattimento.
E' necessario allora prepararsi intensamente, senza risparmiarsi, e ciò sempre e non solo, come fa qualcuno, nei mesi o nelle settimane immediatamente precedenti la verifica.
Occorre fare l'esame possibilmente al di fuori della propria palestra, e con un insegnante esterno diverso dal proprio sensei, perchè sia un momento nel quale legami e aspettative reciproche tra esaminatore ed esaminato non interferiscano nella valutazione.
Occorre, inoltre (come ci rammentava sempre il Maestro Fujimoto), almeno per gli esami dan, che la prova giunga all'esito di un percorso nel quale si è seguito il Maestro presso il quale ci si reca per l'esame, in modo da consentire a quello di verificare se nel tempo, e dall'ultimo esame, siamo progrediti e cresciuti nel livello aikidoistico o siamo al contrario rimasti fermi, immobili nella nostra conoscenza.
In quest'ultimo caso, vuol dire che il nostro cammino (do) si è arrestato, e coerentemente dovrebbe derivarne la bocciatura, perchè siamo evidentemente entrati in una fase di stallo e non abbiamo fatto il necessario, nel prepararci, per superare questo stato di cose.
Il mio consiglio è di condurre una attenta preparazione atletica, per rimanere il più possibile lucidi quando arriverà la fatica.
Accompagnare questo indeispensabile stadio ad un approfondito studio tecnico, che ci dia la necessaria padronanza dei waza che ci verrà richiesto di eseguire.
Per fare questo bisogna allenarsi non soltanto nelle ore di lezione, ma anche dopo, quando la lezione è finita, pensando e ripensando alle tecniche e ai movimenti, per rielaborare quanto si è fatto e talvolta comprendere ciò che sul tatami non siamo riusciti ad afferrare.
Infine, è indispensabile un approccio mentale sereno e determinato, che sia quello di chi fa di tutto per superare la prova ma accetta anche la possibilità che qualcosa vada storto, e che a torto o a ragione l'esaminatore ci chieda di tornare, e fare meglio.
Se questo sarà il nostro atteggiamento verso l'esame, avremo vissuto, naturalmente in maniera incruenta, tutto il microcosmo del guerriero che si prepara al combattimento e lo affronta con coraggio ed onore.
All'esame, come al combattimento, non si anela, ma neppure lo si rifugge.
Al momento in cui si deve fare, bisogna combattere.
Non si è contenti, ma va fatto.
Questo, a mio giudizio, è l'atteggiamento corretto verso l'esame, il nostro combattimento.
Buona Pasqua.
L'approccio all'esame, soprattutto quando i livelli diventano più elevati, è uno dei nodi della pratica.
Gli aikidoisti si dividono, generalmente, tra coloro che non vedono l'ora di sottoporsi a quella prova, e quelli che invece lo rifuggono.
I primi, spesso, sono mossi da un divorante desiderio di vedersi riconosciuti, dalla comunità di praticanti, come persone che spiccano, si distinguono, desiderio di solito accompagnato da una inconfessata volontà di primazia e sovraordinazione quasi gerarchica.
I secondi, al contrario, sostengono di solito di essere disinteressati al progresso nei gradi, e di ritenere puerile un momento come quello dell'esame e del "passaggio di categoria", rivendicando un'etica superiore, vagamente zen, che li porta a non mostrare attaccamento nella umana gloria o vanagloria.
Le cose, mi pare, stanno in un altro modo.
Non credo si debba anelare all'esame, perchè esso, evidentemente, non è che una verifica della preparazione raggiunta, un riscontro ad un lavoro che si è svolto, o che al contrario non è stato sufficentemente assiduo e generoso (chi arde dal desiderio di fare l'esame, spesso, non si è mai sottoposto ad esami sufficientemente duri e severi).
Allo stesso modo, sostenere un esame costituisce un momento importante, sempre che sia un esame serio e apprezzabilmente probante, per la stessa ragione.
Nell'aikido, come è noto, non si combatte, e dunque manca (correttamente, per ragioni etiche e direi pratiche) il momento dello scontro al fine di verificare la nostra abilità.
L'esame è, in questo senso, un surrogato del combattimento.
Non lottiamo, evidentemente, contro qualcuno, ma contro di noi, la fatica, le mancanze conoscitive, le nostre assenze dagli allenamenti e la nostra pigrizia.
Nell'esame dobbiamo dare il massimo, ma questo prima e durante la verifica.
Farsi esaminare vuol dire prepararsi duramente, non risparmiarsi, vincere i demoni che sono in agguato in ogni momento della nostra vita, aikidoistica e non.
L'appagamento, la superbia, sentimenti questi che una pratica come quella aikidoistica rischia di alimentare (per il contesto e le modalità in cui si svolge) e che possono dominare la nostra psiche durante la pratica, vengono distrutti da un approccio serio e sereno all'esame, al quale dovremmo avvicinarci accettando anche l'eventualità di una bocciatura, di un fallimento.
Il valore di un aikidoista si vede anche da come affronta e vive il momento dell'esame.
E' quello il nostro combattimento, il "tempo del coraggio e del valore".
Dunque, bisogna che sia un evento duro, serio, faticoso, direi rischioso, quanto duro, faticoso e rischioso può essere un combattimento.
E' necessario allora prepararsi intensamente, senza risparmiarsi, e ciò sempre e non solo, come fa qualcuno, nei mesi o nelle settimane immediatamente precedenti la verifica.
Occorre fare l'esame possibilmente al di fuori della propria palestra, e con un insegnante esterno diverso dal proprio sensei, perchè sia un momento nel quale legami e aspettative reciproche tra esaminatore ed esaminato non interferiscano nella valutazione.
Occorre, inoltre (come ci rammentava sempre il Maestro Fujimoto), almeno per gli esami dan, che la prova giunga all'esito di un percorso nel quale si è seguito il Maestro presso il quale ci si reca per l'esame, in modo da consentire a quello di verificare se nel tempo, e dall'ultimo esame, siamo progrediti e cresciuti nel livello aikidoistico o siamo al contrario rimasti fermi, immobili nella nostra conoscenza.
In quest'ultimo caso, vuol dire che il nostro cammino (do) si è arrestato, e coerentemente dovrebbe derivarne la bocciatura, perchè siamo evidentemente entrati in una fase di stallo e non abbiamo fatto il necessario, nel prepararci, per superare questo stato di cose.
Il mio consiglio è di condurre una attenta preparazione atletica, per rimanere il più possibile lucidi quando arriverà la fatica.
Accompagnare questo indeispensabile stadio ad un approfondito studio tecnico, che ci dia la necessaria padronanza dei waza che ci verrà richiesto di eseguire.
Per fare questo bisogna allenarsi non soltanto nelle ore di lezione, ma anche dopo, quando la lezione è finita, pensando e ripensando alle tecniche e ai movimenti, per rielaborare quanto si è fatto e talvolta comprendere ciò che sul tatami non siamo riusciti ad afferrare.
Infine, è indispensabile un approccio mentale sereno e determinato, che sia quello di chi fa di tutto per superare la prova ma accetta anche la possibilità che qualcosa vada storto, e che a torto o a ragione l'esaminatore ci chieda di tornare, e fare meglio.
Se questo sarà il nostro atteggiamento verso l'esame, avremo vissuto, naturalmente in maniera incruenta, tutto il microcosmo del guerriero che si prepara al combattimento e lo affronta con coraggio ed onore.
All'esame, come al combattimento, non si anela, ma neppure lo si rifugge.
Al momento in cui si deve fare, bisogna combattere.
Non si è contenti, ma va fatto.
Questo, a mio giudizio, è l'atteggiamento corretto verso l'esame, il nostro combattimento.
Buona Pasqua.
sabato 17 marzo 2012
Aikido e cultura giapponese
Tra le tante ragioni che mi portarono, alcuni anni fa, ad avvicinarmi al maestro Fujimoto, vi fu senza dubbio il modo in cui praticava e insegnava le tecniche.
Mi trovai, per la prima volta e pure dopo molti anni di attività, a vedere nella tecnica molto più che una semplice combinazione di movimenti, ma un certo modo di penetrare la cultura giapponese.
Si, perchè a mio giudizio il Maestro e la sua didattica erano l'essenza stessa di quella cultura, così poco incline alla astrazione e alla teoria complessa, queste ultime forse più affini al pensiero occidentale o indiano e cinese.
Il giapponese, per come mi è sembrato di capire, ha certamente una sua teoria etica, ma non la esterna altrimenti che nel modo in cui fa le cose, anche le più apparentemente semplici e banali.
Quella cultura, mi pare, esprime la sua etica e la sua idea dello stare al mondo nel curare nei minimi dettagli ogni singolo gesto, nel tentativo di renderlo unico e irripetibile, qualunque esso sia.
Un saluto, allora, non è solo un gesto del corpo, ma va fatto con attenzione e cura, come se fosse la cosa più importante che ci si chieda di fare, perchè in effetti, in quel momento, è così.
Spesso i viaggiatori che hanno visitato il Giappone hanno ad esempio riferito della dedizione estrema che i giapponesi mettono nel fare un regalo, ma che nella cultura di quel popolo non è indirizzata a donare un oggetto particolarmente ricercato e prezioso, ma nel confezionrlo in un pacchetto complesso e il più bello possibile, essendo appunto del tutto secondario cosa poi in quel pacchetto vi sia.
Il regalo, in sostanza, consiste più che altro nel tempo che ho impiegato per te, nell'impacchettarlo con cura e cercando di renderlo bellissimo, piuttosto che nel dono propriamente detto.
Ebbene, a mio giudizio l'aikido del Maestro Fujimoto era appunto questo.
Era perfetto, bellissimo e razionale, esteticamente stupefacente, e le tecniche, era questo ciò che a mio giudizio voleva trasmettere, andavano fatte in maniera precisissima, attenta, senza tralasciare alcun aspetto, perchè è quello il modo in cui i giapponesi fanno tutte le cose.
Ecco, il Maestro era in questo senso il più giapponese degli shihan, e mi ha fatto entrare, attraverso il suo aikido, nella cultura del suo paese molto più di mille trattati sullo shinto e sulla tradizione nipponica, dei quali altri si prodigano in citazioni.
L'etica di quel paese è fondamentalmente semplice, ed è questa.
Rendete ogni momento della vostra vita irripetibile,e fatelo dedicando ad ogni momento di essa la stessa attenzione, cura e amore che mettereste ove non aveste altre occasioni per farlo, perchè, da questo punto di vista, non c'è un prima e un dopo, ma solo l'irripetibilità di quel momento.
Fate lo stesso, se davvero volete comprendere attraverso l'aikido la cultura tradizionale giapponese, con le tecniche.
Non inseguite grandi teorie, o costruzioni astratte e figurate, perchè non sono quelle l'essenza del Giappone.
Non pretendete di trovare l'illuminazione cui faceva riferimento O sensei nella teoria, ma in una pratica accuratissima e attenta, e in ogni singolo momento di essa, in ciascuna tecnica che vi accingete a mettere in atto.
Rendete il vostro aikido, ma ogni cosa che fate, la più perfetta possibile, e tutto avrà senso.
Questa, tra le tantissime cose che hanno reso magnifica la presenza del Maestro, mi sembra la più importante.
A presto.
Mi trovai, per la prima volta e pure dopo molti anni di attività, a vedere nella tecnica molto più che una semplice combinazione di movimenti, ma un certo modo di penetrare la cultura giapponese.
Si, perchè a mio giudizio il Maestro e la sua didattica erano l'essenza stessa di quella cultura, così poco incline alla astrazione e alla teoria complessa, queste ultime forse più affini al pensiero occidentale o indiano e cinese.
Il giapponese, per come mi è sembrato di capire, ha certamente una sua teoria etica, ma non la esterna altrimenti che nel modo in cui fa le cose, anche le più apparentemente semplici e banali.
Quella cultura, mi pare, esprime la sua etica e la sua idea dello stare al mondo nel curare nei minimi dettagli ogni singolo gesto, nel tentativo di renderlo unico e irripetibile, qualunque esso sia.
Un saluto, allora, non è solo un gesto del corpo, ma va fatto con attenzione e cura, come se fosse la cosa più importante che ci si chieda di fare, perchè in effetti, in quel momento, è così.
Spesso i viaggiatori che hanno visitato il Giappone hanno ad esempio riferito della dedizione estrema che i giapponesi mettono nel fare un regalo, ma che nella cultura di quel popolo non è indirizzata a donare un oggetto particolarmente ricercato e prezioso, ma nel confezionrlo in un pacchetto complesso e il più bello possibile, essendo appunto del tutto secondario cosa poi in quel pacchetto vi sia.
Il regalo, in sostanza, consiste più che altro nel tempo che ho impiegato per te, nell'impacchettarlo con cura e cercando di renderlo bellissimo, piuttosto che nel dono propriamente detto.
Ebbene, a mio giudizio l'aikido del Maestro Fujimoto era appunto questo.
Era perfetto, bellissimo e razionale, esteticamente stupefacente, e le tecniche, era questo ciò che a mio giudizio voleva trasmettere, andavano fatte in maniera precisissima, attenta, senza tralasciare alcun aspetto, perchè è quello il modo in cui i giapponesi fanno tutte le cose.
Ecco, il Maestro era in questo senso il più giapponese degli shihan, e mi ha fatto entrare, attraverso il suo aikido, nella cultura del suo paese molto più di mille trattati sullo shinto e sulla tradizione nipponica, dei quali altri si prodigano in citazioni.
L'etica di quel paese è fondamentalmente semplice, ed è questa.
Rendete ogni momento della vostra vita irripetibile,e fatelo dedicando ad ogni momento di essa la stessa attenzione, cura e amore che mettereste ove non aveste altre occasioni per farlo, perchè, da questo punto di vista, non c'è un prima e un dopo, ma solo l'irripetibilità di quel momento.
Fate lo stesso, se davvero volete comprendere attraverso l'aikido la cultura tradizionale giapponese, con le tecniche.
Non inseguite grandi teorie, o costruzioni astratte e figurate, perchè non sono quelle l'essenza del Giappone.
Non pretendete di trovare l'illuminazione cui faceva riferimento O sensei nella teoria, ma in una pratica accuratissima e attenta, e in ogni singolo momento di essa, in ciascuna tecnica che vi accingete a mettere in atto.
Rendete il vostro aikido, ma ogni cosa che fate, la più perfetta possibile, e tutto avrà senso.
Questa, tra le tantissime cose che hanno reso magnifica la presenza del Maestro, mi sembra la più importante.
A presto.
lunedì 20 febbraio 2012
La morte del Maestro
E così, è successo.
Non c'è più.
Ero certo che quando non avesse più potuto praticare, sarebbe finito tutto, e dunque non sono stupito.
Adesso non ho molto da dire, ho la gola serrata, e poi non mi è mai capitato di scrivere un necrologio.
Al momento ho solo voglia di ringraziarlo, per tutto ciò che mi ha dato.
Per la sua incredibile sapienza, umanità, amore per l'aikido.
Per i sorrisi che accoglievano chi veniva da lontano per seguirlo, e le sue domande curiose, su come andavano le cose al dojo, e a Foggia in genere.
Ma una volta parlammo anche di politica giapponese...
Gli devo, ritengo, tutto.
Diceva spesso che i suoi allievi avevano preso i suoi difetti, e gliene dispiaceva.
Voglio credere che con me non sia successo.
Sono certo di avere visto tutti, davvero tutti i suoi pregi.
Sono cresciuto in questi anni come uomo, e come aikidoista, sotto la guida attenta, e amorevole, di quello che è, a mio giudizio, il più grande di tutti i tempi.
Addio Maestro.
Per sempre riconoscente,
"Foggia".
Non c'è più.
Ero certo che quando non avesse più potuto praticare, sarebbe finito tutto, e dunque non sono stupito.
Adesso non ho molto da dire, ho la gola serrata, e poi non mi è mai capitato di scrivere un necrologio.
Al momento ho solo voglia di ringraziarlo, per tutto ciò che mi ha dato.
Per la sua incredibile sapienza, umanità, amore per l'aikido.
Per i sorrisi che accoglievano chi veniva da lontano per seguirlo, e le sue domande curiose, su come andavano le cose al dojo, e a Foggia in genere.
Ma una volta parlammo anche di politica giapponese...
Gli devo, ritengo, tutto.
Diceva spesso che i suoi allievi avevano preso i suoi difetti, e gliene dispiaceva.
Voglio credere che con me non sia successo.
Sono certo di avere visto tutti, davvero tutti i suoi pregi.
Sono cresciuto in questi anni come uomo, e come aikidoista, sotto la guida attenta, e amorevole, di quello che è, a mio giudizio, il più grande di tutti i tempi.
Addio Maestro.
Per sempre riconoscente,
"Foggia".
sabato 11 febbraio 2012
Aikido come percorso di vita
Qualche anno fa partecipai ad uno stage a Roma, organizzato da una associazione "sorella" dell'Aikikai, la Aiko, diretto dai maestri Tamura e Yamada.
Tamura l'ho poi rivisto in una sola altra occasione, l'anno successivo.
Era già vecchio e malato, e così il suo aikido era ovviamente quello di un anziano, inevitabilmente molto statico e in gran parte imperniato sull'esperienza acquisita piuttosto che sul dinamismo.
Ricordo dunque soprattutto di questo grande shihan (scomparso l'estate scorsa) una spropositata gentilezza, un sorriso pieno di disponibilità e amore per la vita, e qualche frase che mi colpì moltissimo.
Nulla di straordinario, a pensarci, ma l'effetto fascinatorio era proprio nel sentire pronunciare quelle parole da un uomo che era consapevole di essere ormai prossimo alla fine della sua vita, dopo settant'anni passati sui tatami di mezzo mondo.
Un uomo che aveva praticato sotto la guida di O sensei, era stato giovane e forte, aveva lasciato il suo paese per diffondere l'aikido, aveva realizzato quell'obiettivo, era invecchiato insegnando aikido, e ora si accingeva ad abbandonare tutto.
Sorrideva spesso, e quando parlava diceva cose semplici e tuttavia profondissime.
Erano piccole frasi, frammenti di vita che avevano tutto il fascino di una esperienza antica e profondissima.
Comunque, quello che mi fece molta impressione fu quello che disse ad un certo punto, nella pausa tra una tecnica e un'altra.
Tamura sensei disse che i praticanti di aikido, lui disse qualcosa come "noi praticanti", appena arrivano in una città nuova hanno come primo pensiero quello di cercare un dojo presso cui praticare, e poi aggiunse, con un bel sorriso, "e se non lo troviamo siamo molto tristi".
Ripeto, letta così non è poi molto poetica, e invece vi assicuro che lo fu, pronunciata in quel contesto e da quell'uomo.
Pensai che aveva ragione, era esattamente così.
Mi viene spesso in mente perchè provai un senso di condivisione immediato, ebbi la sensazione che la comunità degli aikidoisti esiste, e se dovessi definirla lo farei proprio così, intendendola come composta da tutti quelli che quando si recano in un posto hanno come primo pensiero dove poter praticare, e che se non lo trovano si intristiscono.
Mi viene in mente perchè, ascoltando quelle parole, dette da un grande Maestro malato, ebbi la nettissima sensazione che il suo più grande cruccio, sul punto di morire, fosse quello di non potere più praticare.
Chissà, forse è un sciocchezza, ma è quello che pensai, e mi fece enorme impressione.
Questo lo dico perchè spesso sprechiamo tempo, pensando sempre che ci saranno altre occasioni.
Quello che non ho fatto oggi lo potrò certamente fare domani.
Io credo che non sia così, e penso che dovremmo fare il possibile, sempre, per rendere irripetibile ogni momento del nostro vivere (ichi go ichi e).
Sotto il profilo aikidoistico, questo vuol dire impegnarsi sempre e in ogni occasione per migliorarsi, crescere.
Questa ricerca continua è il migliore antidoto alla noia, il migliore dei modi per sconfiggere il demone dell'appagamento.
L'aikido, per definizione, è un percorso di vita.
Questo non per dare una connotazione para religiosa alla pratica, e chi mi conosce sa che sono assolutamente alieno da queste tentazioni, come persona e insegnante.
E' tuttavia sicuramente un cammino, di autoperfezionamento continuo, incessante, inevitabilmente destinato a non trovare conclusione se non con la nostra morte.
Non si può fare seriamente fermandosi continuamente, praticando sporadicamente e in maniera distratta e svogliata.
Che ne valga la pena, ne sono certo.
Guardando gli occhi, il sorriso e le ascoltando le parole di Tamura shihan quel giorno, ne ho avuto la certezza.
A presto, e buon allenamento.
Tamura l'ho poi rivisto in una sola altra occasione, l'anno successivo.
Era già vecchio e malato, e così il suo aikido era ovviamente quello di un anziano, inevitabilmente molto statico e in gran parte imperniato sull'esperienza acquisita piuttosto che sul dinamismo.
Ricordo dunque soprattutto di questo grande shihan (scomparso l'estate scorsa) una spropositata gentilezza, un sorriso pieno di disponibilità e amore per la vita, e qualche frase che mi colpì moltissimo.
Nulla di straordinario, a pensarci, ma l'effetto fascinatorio era proprio nel sentire pronunciare quelle parole da un uomo che era consapevole di essere ormai prossimo alla fine della sua vita, dopo settant'anni passati sui tatami di mezzo mondo.
Un uomo che aveva praticato sotto la guida di O sensei, era stato giovane e forte, aveva lasciato il suo paese per diffondere l'aikido, aveva realizzato quell'obiettivo, era invecchiato insegnando aikido, e ora si accingeva ad abbandonare tutto.
Sorrideva spesso, e quando parlava diceva cose semplici e tuttavia profondissime.
Erano piccole frasi, frammenti di vita che avevano tutto il fascino di una esperienza antica e profondissima.
Comunque, quello che mi fece molta impressione fu quello che disse ad un certo punto, nella pausa tra una tecnica e un'altra.
Tamura sensei disse che i praticanti di aikido, lui disse qualcosa come "noi praticanti", appena arrivano in una città nuova hanno come primo pensiero quello di cercare un dojo presso cui praticare, e poi aggiunse, con un bel sorriso, "e se non lo troviamo siamo molto tristi".
Ripeto, letta così non è poi molto poetica, e invece vi assicuro che lo fu, pronunciata in quel contesto e da quell'uomo.
Pensai che aveva ragione, era esattamente così.
Mi viene spesso in mente perchè provai un senso di condivisione immediato, ebbi la sensazione che la comunità degli aikidoisti esiste, e se dovessi definirla lo farei proprio così, intendendola come composta da tutti quelli che quando si recano in un posto hanno come primo pensiero dove poter praticare, e che se non lo trovano si intristiscono.
Mi viene in mente perchè, ascoltando quelle parole, dette da un grande Maestro malato, ebbi la nettissima sensazione che il suo più grande cruccio, sul punto di morire, fosse quello di non potere più praticare.
Chissà, forse è un sciocchezza, ma è quello che pensai, e mi fece enorme impressione.
Questo lo dico perchè spesso sprechiamo tempo, pensando sempre che ci saranno altre occasioni.
Quello che non ho fatto oggi lo potrò certamente fare domani.
Io credo che non sia così, e penso che dovremmo fare il possibile, sempre, per rendere irripetibile ogni momento del nostro vivere (ichi go ichi e).
Sotto il profilo aikidoistico, questo vuol dire impegnarsi sempre e in ogni occasione per migliorarsi, crescere.
Questa ricerca continua è il migliore antidoto alla noia, il migliore dei modi per sconfiggere il demone dell'appagamento.
L'aikido, per definizione, è un percorso di vita.
Questo non per dare una connotazione para religiosa alla pratica, e chi mi conosce sa che sono assolutamente alieno da queste tentazioni, come persona e insegnante.
E' tuttavia sicuramente un cammino, di autoperfezionamento continuo, incessante, inevitabilmente destinato a non trovare conclusione se non con la nostra morte.
Non si può fare seriamente fermandosi continuamente, praticando sporadicamente e in maniera distratta e svogliata.
Che ne valga la pena, ne sono certo.
Guardando gli occhi, il sorriso e le ascoltando le parole di Tamura shihan quel giorno, ne ho avuto la certezza.
A presto, e buon allenamento.
venerdì 3 febbraio 2012
Il raduno con Daniele Montenegro sensei
Annunciato da segnali premonitori niente affatto incoraggianti (il blocco dei tir e l'arrivo della arcinota perturbazione siberiana), si è tenuto a Foggia, il 28 e 29 gennaio, il previsto raduno con Sensei Montenegro.
Si è trattato di uno stage, a mio giudizio, bellissimo.
L'istruttore è molto più che bravo, e la fedeltà ai principi e alle direttive dell'aikido del Maestro Fujimoto è stata impressionante.
E' perfettamente evidente e addirittura palpabile, nel seguire le movenze e la didattica di Montenegro, la straordinaria mole di informazioni che questo ragazzo di neppure trent'anni è stato in grado di acquisire nel decennio nel quale è stato uke e asssitente di Fujimoto Shihan.
Era quello che speravo che fosse, un interprete eccezionalmente credibile del pensiero aikidoistico del Maestro.
Devo confessarlo, ha per quanto mi riguarda superato ogni mia più rosea e ottimistica previsione.
Quanto al contenuto del raduno, stante la assoluta prevalenza di principianti, le lezioni hanno avuto ad oggetto, soprattutto il primo giorno, le tecniche base che costituiscono il programma di esame di sesto Kyu, eseguite tuttavia con la tipica precisione e scientificità propria del Maestro, e dunque con una attenzione impressionante ad ogni dettaglio e aspetto, dalla corretta postura del corpo alla giusta distanza, dal lavoro di te sabaki alle regole di un buon equilibrio e centralizzazione.
Nel secondo giorno la lezione è stata dedicata anche ai più avanzati, con studio di tecniche da katateryotetori e ushiroryotetori.
Ampie e articolate riflessioni e direttive sono state ovviamente dedicate all'atteggiamento di uke, sul quale chi scrive si prodiga spesso in spiegazioni nel corso delle lezioni, ma che sensei Montenegro sa rendere in maniera particolarmente efficace (te ne accorgi quando gli allievi vengono a dirti di avere compreso qualcosa che tu pensi di avere spiegato loro almeno un centinaio di volte, e te lo dicono con l'aria di chi dice: ma tu lo sapevi?).
Insomma, davvero tutti entusiasti, ed io per primo.
Credo proprio che prenderò a recarmi qualche volta a Milano per seguire qualche altro raduno o lezione di questo straordinario istruttore.
Ovviamente lo inviterò anche l'anno prossimo.
Il mio auspicio è che a questi appuntamenti affluiscano sempre più persone.
Consiglio vivamente anche a chi è molto esperto di frequentare Montenegro, nel caso in cui cerchi Fujimoto, il suo aikido, la sua impressionante didattica, perchè questo insegnante è davvero quello che più vi si avvicina.
Grazie a chi è venuto.
Chi non c'era, mi permetto di dirlo, ha perso l'ennesima buona occasione per una pratica superiore, nella propria città o a pochi chilometri da casa.
Pazienza.
A presto.
Si è trattato di uno stage, a mio giudizio, bellissimo.
L'istruttore è molto più che bravo, e la fedeltà ai principi e alle direttive dell'aikido del Maestro Fujimoto è stata impressionante.
E' perfettamente evidente e addirittura palpabile, nel seguire le movenze e la didattica di Montenegro, la straordinaria mole di informazioni che questo ragazzo di neppure trent'anni è stato in grado di acquisire nel decennio nel quale è stato uke e asssitente di Fujimoto Shihan.
Era quello che speravo che fosse, un interprete eccezionalmente credibile del pensiero aikidoistico del Maestro.
Devo confessarlo, ha per quanto mi riguarda superato ogni mia più rosea e ottimistica previsione.
Quanto al contenuto del raduno, stante la assoluta prevalenza di principianti, le lezioni hanno avuto ad oggetto, soprattutto il primo giorno, le tecniche base che costituiscono il programma di esame di sesto Kyu, eseguite tuttavia con la tipica precisione e scientificità propria del Maestro, e dunque con una attenzione impressionante ad ogni dettaglio e aspetto, dalla corretta postura del corpo alla giusta distanza, dal lavoro di te sabaki alle regole di un buon equilibrio e centralizzazione.
Nel secondo giorno la lezione è stata dedicata anche ai più avanzati, con studio di tecniche da katateryotetori e ushiroryotetori.
Ampie e articolate riflessioni e direttive sono state ovviamente dedicate all'atteggiamento di uke, sul quale chi scrive si prodiga spesso in spiegazioni nel corso delle lezioni, ma che sensei Montenegro sa rendere in maniera particolarmente efficace (te ne accorgi quando gli allievi vengono a dirti di avere compreso qualcosa che tu pensi di avere spiegato loro almeno un centinaio di volte, e te lo dicono con l'aria di chi dice: ma tu lo sapevi?).
Insomma, davvero tutti entusiasti, ed io per primo.
Credo proprio che prenderò a recarmi qualche volta a Milano per seguire qualche altro raduno o lezione di questo straordinario istruttore.
Ovviamente lo inviterò anche l'anno prossimo.
Il mio auspicio è che a questi appuntamenti affluiscano sempre più persone.
Consiglio vivamente anche a chi è molto esperto di frequentare Montenegro, nel caso in cui cerchi Fujimoto, il suo aikido, la sua impressionante didattica, perchè questo insegnante è davvero quello che più vi si avvicina.
Grazie a chi è venuto.
Chi non c'era, mi permetto di dirlo, ha perso l'ennesima buona occasione per una pratica superiore, nella propria città o a pochi chilometri da casa.
Pazienza.
A presto.
venerdì 27 gennaio 2012
Brevissime:stage con sensei Montenegro
Vi ricordo, soprattutto aikidoisti foggiani,
che sabato e domenica, alla Taralli, si terrà lo stage con un bravissimo istruttore di Milano, Daniele Montenegro, giovane quarto dan dell'aikikai d'Italia.
Raccomando a tutti coloro i quali fanno parte di club di aikido foggiani, o dei dintorni, di accorrere numerosi, perchè sarebbe importante che questi appuntamenti venissero sentiti da tutti noi come momenti nei quali l'aikido foggiano si mette in gioco, e fosse possibile dunque permettere che abbiano successo.
Inoltre lo sciopero dei tir, e le difficoltà di reperire carburante e in generale viaggiare, potrebbero costituire un problema per chi volesse venire da fuori, cosicchè dovremo essere noi a riempire gli eventuali spazi vuoti.
Vi aspetto, allora, e spero che saremo all'altezza.
Per ogni chiarimento, contattatemi pure.
Altrimenti, ci vediamo alla palestra Taralli, nelle sale dove si fa Judo, e dunque al piano inferiore della struttura.
Sabato dalle 18.00, e domenica dalle 09.30 (la locandina è sul sito dell'aikikai d'Italia).
Portate bokken, jo e tanto. Se non le avete, fatemi uno squillo.
A presto, Luca.
che sabato e domenica, alla Taralli, si terrà lo stage con un bravissimo istruttore di Milano, Daniele Montenegro, giovane quarto dan dell'aikikai d'Italia.
Raccomando a tutti coloro i quali fanno parte di club di aikido foggiani, o dei dintorni, di accorrere numerosi, perchè sarebbe importante che questi appuntamenti venissero sentiti da tutti noi come momenti nei quali l'aikido foggiano si mette in gioco, e fosse possibile dunque permettere che abbiano successo.
Inoltre lo sciopero dei tir, e le difficoltà di reperire carburante e in generale viaggiare, potrebbero costituire un problema per chi volesse venire da fuori, cosicchè dovremo essere noi a riempire gli eventuali spazi vuoti.
Vi aspetto, allora, e spero che saremo all'altezza.
Per ogni chiarimento, contattatemi pure.
Altrimenti, ci vediamo alla palestra Taralli, nelle sale dove si fa Judo, e dunque al piano inferiore della struttura.
Sabato dalle 18.00, e domenica dalle 09.30 (la locandina è sul sito dell'aikikai d'Italia).
Portate bokken, jo e tanto. Se non le avete, fatemi uno squillo.
A presto, Luca.
sabato 7 gennaio 2012
Stage di Natale 2011
Come di consueto, anche quest'anno si è tenuto tra il 26 e il 30 dicembre il tradizionale "stage di Natale" organizzato dall'Aikikai di Milano.
Le lezioni non sono state dirette dal Maestro Fujimoto, febbricitante, ma dai suoi assistenti più alti in grado, e che lo sostituiscono spesso anche negli stage organizzati all'estero, ovverosia i sensei Foglietta e Travaglini.
I due insegnanti si sono alternati nelle lezioni, sia pure in esecuzione delle direttive che il Maestro Fujimoto impartiva loro.
Il leit motif dello stage è stato stavolta Ikkyo Undo, ossia l'esercizio che sostanzialmente riproduce la "parata" che si effettua di fronte all'attacco di shomenuchi quando si intenda eseguire appunto ikkyo.
Si tratta come è noto di uno dei classici movimenti volti a sviluppare la tanto agognata centralizzazione dell'energia, ossia quella condizione di assoluto equilibrio che dovrebbe caratterizzare l'aikidoista esperto, il quale dovrebbe cioè essere sempre in grado, nella esecuzione delle tecniche e in ogni momento di ogni suo spostamento di ripristinare il suo centro ottimale, riposizionando istantaneamente il suo seika no tanden e conseguentemente l'equilibrio tutto nel momento stesso in cui compie qualsiasi movimento del corpo.
Nella attenzione del Maestro Fujimoto verso questa tipologia di esercizi si rinviene, a mio giudizio, tutto l'influsso che su di lui ha avuto il Maestro Tohei, suo originario istruttore sia pure per poco tempo, influsso che invece mi sembra nella esecuzione delle tecniche molto più sfumato.
Molta enfasi allora è stata data da un lato alla posizione delle mani, e alla funzione del mignolo, che deve essere attivo, erto, quasi che sia quel dito a chiudere il cerchio e trasmettere quella condizione di "mano inflessibile" che l'esercizio tenta di ricreare.
Dall'altro, l'attenzione è stata posta sullo spostamento del peso, vera e propria chiave del mantenimento dell'equilibrio, che se correttamente addestrato consente il controllo del partner e di evitare che la dinamica ci porti, nel momento della esecuzione della tecnica, a smarrire la nostra stabilità.
Questi concetti sono stati applicati su attacchi di ogni genere, realizzando prevalentemente le tecniche base di ikkyo ( e derivate, in particolare nikkyo e sankyo).
E così ad esempio, se uke attacca in yokomen uchi, l'atteggiamento delle mani e del mignolo in particolare deve trasmettere inflessibilità, energia attiva, perchè sono entrambe le mani che instaurano il contatto che consentirà di convogliare dove noi vogliamo l'energia che da esso si sprigiona. Allo stesso tempo, nella esecuzione del movimento di uscita, che sia interno o esterno, analogamente a quanto facciamo in ikkyo undo dobbiamo cercare di mantenere nelle varie fasi dell'evasione una condizione di assoluto equilibrio che lo spostamento del peso sull'uno o sull'altro piede ci deve consentire di stabilire e non perdere, senza che il vortice che dovremmo essere riusciti a creare e nel quale abbiamo lanciato uke finisca per risucchiarci.
Prendiamo ad esempio il caso di yokomen uchi ikkyo ura, nella forma nella quale reagiamo all'attacco quasi avanzando diagonalmente verso uke, lavorando sul suo braccio e sbilanciandolo con un movimento appunto diagonale e verso il suo lato.
Se mandiamo uke e la sua mano verso il suo angolo laterale, e dunque verso dietro e in basso, dobbiamo essere in grado, se vogliamo mantenere il contatto con il partner e piazzare la tecnica, di seguirlo con un passo, in modo da stabilire la giusta distanza per eseguire la leva.
Tuttavia, se non avremo sviluppato bene il senso del nostro equilibrio, e non saremo addestrati bene nello spostamento di peso, ci sarà impossibile farlo correttamente, perchè finiremo trascinati nel lancio che noi stessi abbiamo innescato.
Esempi se ne potrebbero fare altri.
Anche in irmi nage, ad esempio, noi generiamo una grossa forza verso il basso e verso le nostre spalle.
Tori difatti lancia uke con tutto il suo peso, generando un vortice di energia dal quale, se non è ben stabilizzato, rischia di essere travolto.
Se allora avremo lavorato bene sullo spostamento del peso, saremo in grado pure in quell'avvitamento dinamico di controllare uke, senza ruzzolare a terra con lui.
Negli ultimi anni, il Maestro Fujimoto pretende soprattutto la forma di irimi nage nella quale ad uke non si fa compiere un avvitamento completo, dovendo invece tori, attraverso un cambio del proprio peso, e mantenendo sempre il proprio centro, controllare il partner e il suo movimento, entrando solo successivamente con irimi o con tenkan.
Quando io ho fatto a Laces gli esami di terzo dan, e anche l'anno precedente, Fujimoto sensei avvertiva espressamente che senza quella forma "non c'è esame". In altre parole, chi non fosse stato in grado di eseguire quel controllo, non possedeva la padronanza del proprio equilibrio, e dunque non poteva conseguire il grado superiore.
Quell'irimi nage, a pensarci bene, è una chiara applicazione di un buon ikkyo undo.
Lo stage è stato ovviamente tante cose, ma diciamo che questo a mio giudizio era il messaggio di fondo.
E' stato, come sempre si dovrebbe fare nei raduni seri, uno stage di studio e di approfondimento.
Eravamo in tanti, e la delusione di non potere praticare sotto la guida del Maestro, pure inevitabile, non ha impedito di essere concentrati e attenti.
Spero di avere reso, almeno in minima parte, quello che credo volesse essere il tema che il Maestro voleva approfondire.
A presto.
Le lezioni non sono state dirette dal Maestro Fujimoto, febbricitante, ma dai suoi assistenti più alti in grado, e che lo sostituiscono spesso anche negli stage organizzati all'estero, ovverosia i sensei Foglietta e Travaglini.
I due insegnanti si sono alternati nelle lezioni, sia pure in esecuzione delle direttive che il Maestro Fujimoto impartiva loro.
Il leit motif dello stage è stato stavolta Ikkyo Undo, ossia l'esercizio che sostanzialmente riproduce la "parata" che si effettua di fronte all'attacco di shomenuchi quando si intenda eseguire appunto ikkyo.
Si tratta come è noto di uno dei classici movimenti volti a sviluppare la tanto agognata centralizzazione dell'energia, ossia quella condizione di assoluto equilibrio che dovrebbe caratterizzare l'aikidoista esperto, il quale dovrebbe cioè essere sempre in grado, nella esecuzione delle tecniche e in ogni momento di ogni suo spostamento di ripristinare il suo centro ottimale, riposizionando istantaneamente il suo seika no tanden e conseguentemente l'equilibrio tutto nel momento stesso in cui compie qualsiasi movimento del corpo.
Nella attenzione del Maestro Fujimoto verso questa tipologia di esercizi si rinviene, a mio giudizio, tutto l'influsso che su di lui ha avuto il Maestro Tohei, suo originario istruttore sia pure per poco tempo, influsso che invece mi sembra nella esecuzione delle tecniche molto più sfumato.
Molta enfasi allora è stata data da un lato alla posizione delle mani, e alla funzione del mignolo, che deve essere attivo, erto, quasi che sia quel dito a chiudere il cerchio e trasmettere quella condizione di "mano inflessibile" che l'esercizio tenta di ricreare.
Dall'altro, l'attenzione è stata posta sullo spostamento del peso, vera e propria chiave del mantenimento dell'equilibrio, che se correttamente addestrato consente il controllo del partner e di evitare che la dinamica ci porti, nel momento della esecuzione della tecnica, a smarrire la nostra stabilità.
Questi concetti sono stati applicati su attacchi di ogni genere, realizzando prevalentemente le tecniche base di ikkyo ( e derivate, in particolare nikkyo e sankyo).
E così ad esempio, se uke attacca in yokomen uchi, l'atteggiamento delle mani e del mignolo in particolare deve trasmettere inflessibilità, energia attiva, perchè sono entrambe le mani che instaurano il contatto che consentirà di convogliare dove noi vogliamo l'energia che da esso si sprigiona. Allo stesso tempo, nella esecuzione del movimento di uscita, che sia interno o esterno, analogamente a quanto facciamo in ikkyo undo dobbiamo cercare di mantenere nelle varie fasi dell'evasione una condizione di assoluto equilibrio che lo spostamento del peso sull'uno o sull'altro piede ci deve consentire di stabilire e non perdere, senza che il vortice che dovremmo essere riusciti a creare e nel quale abbiamo lanciato uke finisca per risucchiarci.
Prendiamo ad esempio il caso di yokomen uchi ikkyo ura, nella forma nella quale reagiamo all'attacco quasi avanzando diagonalmente verso uke, lavorando sul suo braccio e sbilanciandolo con un movimento appunto diagonale e verso il suo lato.
Se mandiamo uke e la sua mano verso il suo angolo laterale, e dunque verso dietro e in basso, dobbiamo essere in grado, se vogliamo mantenere il contatto con il partner e piazzare la tecnica, di seguirlo con un passo, in modo da stabilire la giusta distanza per eseguire la leva.
Tuttavia, se non avremo sviluppato bene il senso del nostro equilibrio, e non saremo addestrati bene nello spostamento di peso, ci sarà impossibile farlo correttamente, perchè finiremo trascinati nel lancio che noi stessi abbiamo innescato.
Esempi se ne potrebbero fare altri.
Anche in irmi nage, ad esempio, noi generiamo una grossa forza verso il basso e verso le nostre spalle.
Tori difatti lancia uke con tutto il suo peso, generando un vortice di energia dal quale, se non è ben stabilizzato, rischia di essere travolto.
Se allora avremo lavorato bene sullo spostamento del peso, saremo in grado pure in quell'avvitamento dinamico di controllare uke, senza ruzzolare a terra con lui.
Negli ultimi anni, il Maestro Fujimoto pretende soprattutto la forma di irimi nage nella quale ad uke non si fa compiere un avvitamento completo, dovendo invece tori, attraverso un cambio del proprio peso, e mantenendo sempre il proprio centro, controllare il partner e il suo movimento, entrando solo successivamente con irimi o con tenkan.
Quando io ho fatto a Laces gli esami di terzo dan, e anche l'anno precedente, Fujimoto sensei avvertiva espressamente che senza quella forma "non c'è esame". In altre parole, chi non fosse stato in grado di eseguire quel controllo, non possedeva la padronanza del proprio equilibrio, e dunque non poteva conseguire il grado superiore.
Quell'irimi nage, a pensarci bene, è una chiara applicazione di un buon ikkyo undo.
Lo stage è stato ovviamente tante cose, ma diciamo che questo a mio giudizio era il messaggio di fondo.
E' stato, come sempre si dovrebbe fare nei raduni seri, uno stage di studio e di approfondimento.
Eravamo in tanti, e la delusione di non potere praticare sotto la guida del Maestro, pure inevitabile, non ha impedito di essere concentrati e attenti.
Spero di avere reso, almeno in minima parte, quello che credo volesse essere il tema che il Maestro voleva approfondire.
A presto.
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