"Chi possiede un Dojo, sarà oppresso da tante occupazioni, come l'amministrazione a altre cose del genere, che diverrà meno devoto del Budo. Di conseguenza la sua abilità tecnica diminuirà".
Sono parole di O' sensei, confermate del resto dalla sua storia personale.
Al progressivo consolidarsi dell'aikido, dovuto alla sua opera e alla sua genialità marziale, non ha mai fatto riscontro la trasformazione di Ueshiba Morihei in gestore della struttura che si andava creando e affermando, avendo egli sempre delegato, anzitutto al figlio e a Osawa sensei ogni aspetto che non fosse semplicemente di studio e didattica aikidoistica.
Raccontano difatti le sue biografie che non appena un dojo iniziava ad avere un buon numero di praticanti, e appariva essere in grado di camminare da solo, ecco che O' Sensei se ne distaccava, recandosi in altre città ove vi fosse bisogno di radicarsi.
Non credo, a leggere quanto viene raccontato di lui, che il Maestro Ueshiba lo facesse per il solo fine di diffondere l'aikido, parendomi piuttosto che egli rifiutasse appunto l'idea di diventare un amministratore.
Lui voleva praticare, studiare.
Tento sempre di ispirarmi a questo insegnamento.
Qualche anno fa il Maestro Fujimoto, all'esito di una sessione di esami Yondan insolitamente generosa, spiegò che quello poteva essere il suo ultimo esame (predizione per fortuna poi smentita), e che dunque non voleva bocciare nessuno. Lasciò chiaramente intendere, tuttavia, di essere rimasto profondamente insoddisfatto dalle prestazioni di alcuni esaminati (degli aspiranti quarti dan approssimativamente una metà erano molto bravi, mentre per la rimenente parte erano bravi per niente), alcuni dei quali erano per di più responsabili di dojo. A quel punto il Maestro disse, rivolgendosi a loro ma in realtà a tutti, che occorreva, una volta nominati responsabili di dojo, o comunque divenuti insegnanti, continuare a studiare, recandosi a praticare anche fuori dal proprio dojo in modo da recuperare il tempo dello studio altrimenti dedicato all'insegnamento.
Insegnare difatti è appagante, gratificante.
Decidiamo noi cosa fare e come farlo. Quali tecniche chiamare e quali no, lo stile con cui eseguirle e il tempo dell'allenamento tutto.
Continuamente arrivano nuovi praticanti, o tornano gli assenteisti cronici che periodicamente, dopo lunghe assenze, rimettono piede sul tatami avendo dimenticato tutto o quasi di quanto avevate loro tentato di insegnare.
Questo comporta la necessità di rallentare, di tornare alla base più elementare.
Non è, anche sotto il profilo tecnico, del tutto negativo, perchè anche questo tipo di allenamento, se fatto con l'atteggiamento giusto e con la voglia di imparare davvero, determina una buona crescita anche per l'istruttore.
Tuttavia, la pratica di un insegnante non deve arrestarsi a questo.
Dobbiamo uscire dal dojo, tornare allievi di qualcuno del quale seguire le direttive, sottrarci alla tentazione di "giocare solo in casa".
Mi è capitato spesso di vedere, nel corso degli anni, persone che mi sembravano avere un ottimo livello, rimanere poi bloccate in quello stadio, o peggio essere regredite.
Questo non perchè abbiano smesso di fare aikido, ma perchè hanno magari cominciato a insegnare, dimenticandosi l'aspetto della pratica pura.
Il rimedio a questo è a mio giudizio quello di recarsi presso altri dojo, sempre che vi si lavori bene, periodicamente e non solo "una tantum", in modo da riconquistare una dimensione di semplice praticante almeno per una parte del proprio percorso aikidoistico.
Occorre poi partecipare assiduamente agli stage, possibilmente quelli nei quali si lavora di più e con maggiore intensità, evitando di sottrarsi al giudizio di veri Maestri, o per lo meno di istruttori molto qualificati, che siano a loro volta sotto la direzione di uno shihan.
Il rischio è altrimenti quello di perdere la possibilità e la voglia di progredire.
Non credo, sinceramente, che si possa fare da soli, nel chiuso del nostro dojo, un serio cammino di vita quale dovrebbe essere quello aikidoistico.
Nè basta fare uno o due stage all'anno per rimediare all'isolamento al quale ci siamo condannati.
Anche la storia del Giappone, del resto, dovrebbe avercelo insegnato.
Chiusi per oltre tre secoli in se stessi, i giapponesi scoprirono improvvisamente, "grazie" alle cannonate di una nave da guerra statunitense, quanto il loro isolamento avesse reso obsolete e inadeguate le loro conoscenze, e quanto fossero fragili e indifesi di fronte ad un mondo che tanto avevano disprezzato, e che nel frattempo aveva corso superandoli e umiliandoli per la arretratezza alla quale la loro pretesa di sufficienza e autarchia li aveva condannati.
Buon Natale a tutti.
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