sabato 24 dicembre 2011

L'appagamento dell'insegnante

"Chi possiede un Dojo, sarà oppresso da tante occupazioni, come l'amministrazione a altre cose del genere, che diverrà meno devoto del Budo. Di conseguenza la sua abilità tecnica diminuirà".
Sono parole di O' sensei, confermate del resto dalla sua storia personale.
Al progressivo consolidarsi dell'aikido, dovuto alla sua opera e alla sua genialità marziale, non ha mai fatto riscontro la trasformazione di Ueshiba Morihei in gestore della struttura che si andava creando e affermando, avendo egli sempre delegato, anzitutto al figlio e a Osawa sensei ogni aspetto che non fosse semplicemente di studio e didattica aikidoistica.
Raccontano difatti le sue biografie che non appena un dojo iniziava ad avere un buon numero di praticanti, e appariva essere in grado di camminare da solo, ecco che O' Sensei se ne distaccava, recandosi in altre città ove vi fosse bisogno di radicarsi.
Non credo, a leggere quanto viene raccontato di lui, che il Maestro Ueshiba lo facesse per il solo fine di diffondere l'aikido, parendomi piuttosto che egli rifiutasse appunto l'idea di diventare un amministratore.
Lui voleva praticare, studiare.
Tento sempre di ispirarmi a questo insegnamento.
Qualche anno fa il Maestro Fujimoto, all'esito di una sessione di esami Yondan insolitamente generosa, spiegò che quello poteva essere il suo ultimo esame (predizione per fortuna poi smentita), e che dunque non voleva bocciare nessuno. Lasciò chiaramente intendere, tuttavia, di essere rimasto profondamente insoddisfatto dalle prestazioni di alcuni esaminati (degli aspiranti quarti dan approssimativamente una metà erano molto bravi, mentre per la rimenente parte erano bravi per niente), alcuni dei quali erano per di più responsabili di dojo. A quel punto il Maestro disse, rivolgendosi a loro ma in realtà a tutti, che occorreva, una volta nominati responsabili di dojo, o comunque divenuti insegnanti, continuare a studiare, recandosi a praticare anche fuori dal proprio dojo in modo da recuperare il tempo dello studio altrimenti dedicato all'insegnamento.
Insegnare difatti è appagante, gratificante.
Decidiamo noi cosa fare e come farlo. Quali tecniche chiamare e quali no, lo stile con cui eseguirle e il tempo dell'allenamento tutto.
Continuamente arrivano nuovi praticanti, o tornano gli assenteisti cronici che periodicamente, dopo lunghe assenze, rimettono piede sul tatami avendo dimenticato tutto o quasi di quanto avevate loro tentato di insegnare.
Questo comporta la necessità di rallentare, di tornare alla base più elementare.
Non è, anche sotto il profilo tecnico, del tutto negativo, perchè anche questo tipo di allenamento, se fatto con l'atteggiamento giusto e con la voglia di imparare davvero, determina una buona crescita anche per l'istruttore.
Tuttavia, la pratica di un insegnante non deve arrestarsi a questo.
Dobbiamo uscire dal dojo, tornare allievi di qualcuno del quale seguire le direttive, sottrarci alla tentazione di "giocare solo in casa".
Mi è capitato spesso di vedere, nel corso degli anni, persone che mi sembravano avere un ottimo livello, rimanere poi bloccate in quello stadio, o peggio essere regredite.
Questo non perchè abbiano smesso di fare aikido, ma perchè hanno magari cominciato a insegnare, dimenticandosi l'aspetto della pratica pura.
Il rimedio a questo è a mio giudizio quello di recarsi presso altri dojo, sempre che vi si lavori bene, periodicamente e non solo "una tantum", in modo da riconquistare una dimensione di semplice praticante almeno per una parte del proprio percorso aikidoistico.
Occorre poi partecipare assiduamente agli stage, possibilmente quelli nei quali si lavora di più e con maggiore intensità, evitando di sottrarsi al giudizio di veri Maestri, o per lo meno di istruttori molto qualificati, che siano a loro volta sotto la direzione di uno shihan.
Il rischio è altrimenti quello di perdere la possibilità e la voglia di progredire.
Non credo, sinceramente, che si possa fare da soli, nel chiuso del nostro dojo, un serio cammino di vita quale dovrebbe essere quello aikidoistico.
Nè basta fare uno o due stage all'anno per rimediare all'isolamento al quale ci siamo condannati.
Anche la storia del Giappone, del resto, dovrebbe avercelo insegnato.
Chiusi per oltre tre secoli in se stessi, i giapponesi scoprirono improvvisamente, "grazie" alle cannonate di una nave da guerra statunitense, quanto il loro isolamento avesse reso obsolete e inadeguate le loro conoscenze, e quanto fossero fragili e indifesi di fronte ad un mondo che tanto avevano disprezzato, e che nel frattempo aveva corso superandoli e umiliandoli per la arretratezza alla quale la loro pretesa di sufficienza e autarchia li aveva condannati.
Buon Natale a tutti.

sabato 3 dicembre 2011

Breve cronaca dello stage di Milano

Si è svolto a Milano, lo scorso fine settimana, uno stage diretto dal Maestro Fujimoto.
Il Maestro ha guidato entrambi gli allenamenti, il secondo dei quali, quello della domenica mattina, si è protratto come oramai è consuetudine per tre ore.
Questo già dice enormemente della straordinaria forza di volontà di Fujimoto shihan, della sua impressionante capacità di reazione alle avversità e della sua ferma intenzione di trasmettere la maggiore quantità possibile di informazioni e conoscenze (soprattutto, lo dice spesso, a coloro i quali hanno o avranno responsabilità di insegnamento).
Registro, infine, la perdurante assenza  a questi appuntamenti dei membri della direzione didattica, e questo non perchè si sia sentita la loro mancanza, ma perchè mi pare evidente che da queste lezioni avrebbero senza dubbio da imparare, e anche molto.
Comunqe, ce ne faremo una ragione.
Sotto il profilo tecnico, il raduno ha messo l'accento sulla necessità di comprendere bene i movimenti di base, affinchè le tecniche possano scaturire correttamente da essi.
Il Maestro ha dunque chiesto di provare e riprovare shi ho giri, non soltanto in piedi, ma soprattutto in shikko.
Ne ha illustrate due forme: l'una meno fluida, nella quale l'ingresso con il passo posteriore, e dunque l'irimi, è seguito soltanto dal kaiten, immediato, cosicchè occorre poggiare il ginocchio che è entrato e alzare quello divenuto posteriore, nel contempo alzando le braccia e poi calandole dopo avere cambiato direzione nel gesto del fendente di spada; l'altra, più continua, caratterizzata dal fatto che il movimento di entrata viene portato a termine, nel senso che il ginocchio con il quale si è compiuto irimi viene portato sino a terra, riproducendo uno shi ho giri nel quale dapprima, in entrata, si fa tsuki, e solo dopo, nell'altra direzione, si inizia  il gesto di shomen uchi, tenendo il ginocchio davanti alzato.
E', sostanzialmente, la riproduzione delle due forme di shi ho nage omote in hanmihantachi waza.
La prima più per principianti, la seconda più per avanzati, con le ginoccha finali entrambe giù (nella tecnica infatti, a differenza che nel tai sabaki, il ginocchio viene, in questa forma, portato a terra per controllare uke), e che tuttavia spesso fa sì che uke venga scaricato a terra senza che tori riesca a imprimere una precisa direzione, finendo quest'ultimo per sbilanciarsi, e non essere in grado di esercitare alcun controllo sul partner.
Avviso ai naviganti.
Il Maestro ha lasciato chiaramente intendere che questo costituirà materia di esame, soprattutto per le cinture nere e per gli aspiranti shodan.
Lo stage è poi proseguito con la indicazione del Maestro a individuare alcune tecniche fondamentali e di base, ossia ikkyo, shi ho nage, irimi nage, kote gaeshi, kaiten nage, e a praticare partendo sempre da esse, facendone scaturire poi le tecniche "figlie".
Un invito analogo mi è capitato di sentirlo fare anche all'attuale Doshu, che suggeriva di dividere i waza per "famiglie", praticando con questa idea e dunque sviluppando le attitudini che ciascun gruppo di tecniche ha in sè.
Tipico è il caso delle tecniche di immobilizzazione (osae o katame waza), tutte scaturenti da ikkyo.
In altre parole, noi insegnanti dovremmo evitare di iniziare le lezioni da uchi kaiten sankyo, tanto per fare un esempio, o da ude garame.
Su questo filone, il Maestro ha proposto allora uno studio di queste tecniche di base, e di ikkyo in specie, da prese, e in particolare dalla temibile e "fastidiosa" katateryotetori, della quale ha illustrato diverse modalità di evasione, alcune più statiche altre più dinamiche, insistendo per tutte però sul corretto atteggiamento da avere da parte di tori, e sulla necessità di chiudere l'ascella, o colmare lo spazio che lo divide da uke prima di "piazzare" la tecnica.
Inoltre, ha richiamato l'attenzione sulla necessità, nelle tecniche di "ura" (inteso come buio, ciò che non si vede), di porsi alle spalle di uke, cercando questa condizione come attitudine da sviluppare in senso marziale.
Abbiamo fatto, naturalmente, anche altro, ma questa è stata l'essenza del raduno.
Per lo stage di natale, non dovrebbero esserci serie preoccupazioni, e dunque è stato confermato.
Invito ancora una volta, allora, chiunque abbia davvero voglia di imparare, a non farsi sfuggire altre occasioni per praticare con il Maestro, perchè non è detto che ci saranno altre chance.
Ma questo lo dico più in generale, a prescindere dalle condizioni di salute di Fujimoto shihan.
Quello che c'è oggi non è detto che ci sarà anche domani.
E' triste, ma è così.
"Ichi go, ichi e", dunque, è un ammonimento e un invito che dobbiamo avere sempre presente, in tutto quello che facciamo e che ci sta a cuore.
Buon allenamento a tutti.