Qualche anno fa partecipai ad uno stage a Roma, organizzato da una associazione "sorella" dell'Aikikai, la Aiko, diretto dai maestri Tamura e Yamada.
Tamura l'ho poi rivisto in una sola altra occasione, l'anno successivo.
Era già vecchio e malato, e così il suo aikido era ovviamente quello di un anziano, inevitabilmente molto statico e in gran parte imperniato sull'esperienza acquisita piuttosto che sul dinamismo.
Ricordo dunque soprattutto di questo grande shihan (scomparso l'estate scorsa) una spropositata gentilezza, un sorriso pieno di disponibilità e amore per la vita, e qualche frase che mi colpì moltissimo.
Nulla di straordinario, a pensarci, ma l'effetto fascinatorio era proprio nel sentire pronunciare quelle parole da un uomo che era consapevole di essere ormai prossimo alla fine della sua vita, dopo settant'anni passati sui tatami di mezzo mondo.
Un uomo che aveva praticato sotto la guida di O sensei, era stato giovane e forte, aveva lasciato il suo paese per diffondere l'aikido, aveva realizzato quell'obiettivo, era invecchiato insegnando aikido, e ora si accingeva ad abbandonare tutto.
Sorrideva spesso, e quando parlava diceva cose semplici e tuttavia profondissime.
Erano piccole frasi, frammenti di vita che avevano tutto il fascino di una esperienza antica e profondissima.
Comunque, quello che mi fece molta impressione fu quello che disse ad un certo punto, nella pausa tra una tecnica e un'altra.
Tamura sensei disse che i praticanti di aikido, lui disse qualcosa come "noi praticanti", appena arrivano in una città nuova hanno come primo pensiero quello di cercare un dojo presso cui praticare, e poi aggiunse, con un bel sorriso, "e se non lo troviamo siamo molto tristi".
Ripeto, letta così non è poi molto poetica, e invece vi assicuro che lo fu, pronunciata in quel contesto e da quell'uomo.
Pensai che aveva ragione, era esattamente così.
Mi viene spesso in mente perchè provai un senso di condivisione immediato, ebbi la sensazione che la comunità degli aikidoisti esiste, e se dovessi definirla lo farei proprio così, intendendola come composta da tutti quelli che quando si recano in un posto hanno come primo pensiero dove poter praticare, e che se non lo trovano si intristiscono.
Mi viene in mente perchè, ascoltando quelle parole, dette da un grande Maestro malato, ebbi la nettissima sensazione che il suo più grande cruccio, sul punto di morire, fosse quello di non potere più praticare.
Chissà, forse è un sciocchezza, ma è quello che pensai, e mi fece enorme impressione.
Questo lo dico perchè spesso sprechiamo tempo, pensando sempre che ci saranno altre occasioni.
Quello che non ho fatto oggi lo potrò certamente fare domani.
Io credo che non sia così, e penso che dovremmo fare il possibile, sempre, per rendere irripetibile ogni momento del nostro vivere (ichi go ichi e).
Sotto il profilo aikidoistico, questo vuol dire impegnarsi sempre e in ogni occasione per migliorarsi, crescere.
Questa ricerca continua è il migliore antidoto alla noia, il migliore dei modi per sconfiggere il demone dell'appagamento.
L'aikido, per definizione, è un percorso di vita.
Questo non per dare una connotazione para religiosa alla pratica, e chi mi conosce sa che sono assolutamente alieno da queste tentazioni, come persona e insegnante.
E' tuttavia sicuramente un cammino, di autoperfezionamento continuo, incessante, inevitabilmente destinato a non trovare conclusione se non con la nostra morte.
Non si può fare seriamente fermandosi continuamente, praticando sporadicamente e in maniera distratta e svogliata.
Che ne valga la pena, ne sono certo.
Guardando gli occhi, il sorriso e le ascoltando le parole di Tamura shihan quel giorno, ne ho avuto la certezza.
A presto, e buon allenamento.
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