Con atemi si indicano le percussioni, ovverosia i colpi.
"Ate", difatti, può essere tradotto con "colpire", laddove "mi" singifica "corpo".
Atemi, dunque, vuol dire colpire il corpo dell'avversario.
Non si tratta, tuttavia, soltanto di percuotere l'aggressore in un qualunque punto del suo corpo, perchè gli atemi vanno portati soltanto o almeno correttamente nei punti c.d. deboli, in giapponese "Kyusho".
Quei, punti, cioè, che non possono essere rinforzati con l'allenamento (non è possibile, difatti, rinforzare le labbra, o gli occhi, le orecchie, o i testicoli, e così via), la cui percussione violenta provoca di solito stordimento e dolore intenso.
Non è esatto dire che nell'aikido non ci sono atemi, o comunque va spiegato correttamente cosa si intenda.
L'atemi, evidentemente, non va portato nella tecnica aikidoistica, e ciò per le note esigenza etiche (se l'obiettivo è impedire di ferire senza ferire, è chiaro che devo espungere le tecniche potenzialmente distruttive, "irreversibili" e pericolose come le percussioni).
Ma l'atemi non va portato nella sua intera consistenza anche perchè, tra l'altro, finirebbe per spezzare, per così dire, il flusso presente nella tecnica, del quale rappresenterebbe un momento di rottura, una "frattura della sfericità".
Gli atemi, d'altro canto, sono inglobati nell'esercizio, e lo stesso waza di aikido è frutto della concatenazione armonica e continua di movimenti di evasione e di colpi, che l'aikidoista decide di evitare di portare a termine.
Se prendiamo, ad esempio, una tecnica di yokomenuchi ikkyo omote, ebbene vediamo come dall'attacco di uke l'esecutore uscirà con un movimento, se prendiamo il caso di una evasione interna, che consiste in un colpo diretto al viso dell'avversario, e prosegue poi con la applicazione di ikkyo che è a sua volta un colpo al viso sublimato in leva, e che prosegue ancora con un avanzamento che sostituisce, per così dire, un calcio al torace o al viso di uke, e così via.
In altre occasioni, l'atemi è più visibile, nel senso che generalmente la tecnica propriamente detta viene preceduta da un movimento che riproduce la percussione, spesso al fine di trovare lo spazio nella guardia di uke e "distrarlo" (tipico il caso delle entrate in uchi kaiten, dunque sotto l'ascella del partner).
Anche in tal caso, tuttavia, bisogna evitare il più possibile di interrompere il flusso del movimento, e dunque a mio giudizio si deve cercare di portare il colpo (naturalmente comunque senza affondare, nè sfiorare l'altro) come una parte del movimento di entrata, senza isolarlo dalla entrata stessa.
Per restare all'esempio di uchi kaiten, mettiamo sankyo da presa al polso, sarebbe bene evitare di simulare un pugno al viso di uke, per iniziare solo dopo il movimento, essendo a mio giudizio preferibile, e più "aikidoistico", iniziare a muoversi verso la guardia del partner e contestualmente a tale entrata avvicinare la nostra mano al viso di uke in modo da simulare l'attacco e impegnare il partner in modo da evitare di essere colpiti.
E' chiaro che talvolta l'istruttore, o anche semplicemente il compagno anziano, possono dovere spezzare la continuità del movimento in un'ottica didattica ed esemplificativa, così come in altre occasioni può essere necessario, per ottenere da parte di uke un corretto atteggiamento nell'attacco, separare i singoli momenti della tecnica, magari enfatizzandone una parte.
Si tratta tuttavia di eccezioni, o meglio di "licenze" didattiche, e vanno utilizzate a fini precisi.
Consiglierei, dunque, di evitare atteggiamenti da samurai, ed improprie enfatizzazioni degli atemi, perchè altrimenti, ritengo, sarebbe preferibile tornare a studiare alla fonte, e dunque dedicarsi direttamente al daito o in generale alle discipline madri, lasciando da parte l'aikido che è, direi per fortuna, un'altra cosa.
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