"Non c'è Aikido senza Ki"....
E' una frase attribuita al Fondatore, e dunque, per così dire, è condivisibile a priori.
D'altro canto, il kanji di "Ki" compone la parola che designa il nome della disciplina, e dunque...
Su cosa sia, però, l'energia alla quale rimanda il termine "Ki", difficilmente potrebbe conservarsi questa unanimità di partenza.
Dirò la mia, e nulla più.
A mio giudizio, il ki non è altro che la capacità di valorizzare al meglio, e interamente, le proprie potenzialità, evitando di rimanere ingabbiati nei "fattori di disturbo", interni ed esterni, che sono in agguato in ogni momento del nostro agire.
In questo senso, allora, quella di coltivare il ki è un'esigenza per chiunque, in ogni campo si cimenti, e qualunque cosa faccia (l'atleta di fronte alla gara, il pianista all'inizio di un concerto, l'avvocato prima di un'arringa, e così via).
In ambito marziale, in particolare, la ricerca del Ki è il tentativo di applicare, appunto al meglio, ciò che si è studiato e per il quale ci si è preparati.
E' esperienza assai frequente per il praticante quella di trovarsi aggredito o minacciato da qualcuno e di essere paralizzati dalla paura, senza essere in grado di mettere in pratica, o riuscendo a farlo in modo insoddisfacente, le tecniche alle quali ci si è dedicati per tanto tempo sul tatami.
Questo accade, evidentemente, proprio perchè le tecniche di combattimento richiedono, per potere essere messe in pratica, una grande determinazione e presuppongono coraggio e audacia.
Non è affatto semplice, dal punto di vista mentale, rimanere calmi e imperturbabili (almeno nel senso di essere accettabilmente lucidi) mentre qualcuno ci fronteggia, magari armato di coltello.
Normalmente, difatti, in una situazione del genere, prima ancora che l'aggressione abbia inizio, l'aggredito già si immagina ferito e colpito dall'arma, e dunque non è in grado, spesso, di mantenere la calma necessaria a compiere una evasione dall'attacco, magari scivolando a lato dell'avversario attraverso uno spostamento di pochi centimetri, creando la condizione di vantaggio e mettendo in atto una tecnica efficace a disarmare l'aggressore.
Era d'altro canto lo stesso problema che affliggeva il samurai, ed è per questo che gli appartenenti a quella casta guerriera si dedicarono in modo intenso alla ricerca religiosa attraverso la pratica zen, come strumento di "preparazione alla eventualità della morte".
Solo accettando serenamente questa eventualità, difatti, è davvero possibile applicare in tutta la propria efficacia le tecniche marziali.
Non è detto che questo accada.
La ricerca aikidoistica, come quella religiosa d'altro canto, non è affatto scontato che riesca ad approdare a traguardi così alti e difficili.
Ciò non toglie nulla, a mio giudizio, alla bellezza della disciplina, e alle soddisfazioni che da essa possono comunque trarsi. E' evidente.
Questo non è, però, a mio giudizio, un buon motivo per rinunciare a priori a questa ambizione.
Una cosa è certa.
Non c'è bisogno di atteggiarsi a santoni e illuminati.
Ricordo bene una intervista di circa vent'anni fa rilasciata alla rivista dal maestro Fujimoto, nella quale, ad un certo punto, all'intervistatore che gli chiedeva di "parlare di Ki" il Maestro, dopo essersi schermito e tentato di cambiare discorso, rispose serafico e ironico "Vivo, dunque c'è ki", per poi esclamare, ridacchiando, "Forse quando io settant'anni parla di ki".
Ebbene, il suo ki, lo sta ampiamente dimostrando, è addirittura straripante.
Pratichiamo bene, dunque, seriamente, e forse, chissà, qualche chance in più di trovarlo, questo misterioso ki, l'avremo...
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