domenica 13 novembre 2016

Il cappellino di Fujimoto sensei

Chiacchieravo con un amico che a sua volta dirige un corso di aikido nei pressi di Foggia, qualche tempo fa, e questa persona mi ha detto qualcosa a proposito del fatto che a lui non piacciono certi gesti tecnici "tipici" del nostro modo di praticare, e ha fatto l'esempio dell'ormai celebre "cappellino", un vero e proprio marchio di fabbrica della "ditta" Fujimoto.
Ha detto che a lui "queste cose" non vanno giù, o qualcosa del genere, lasciando intendere che preferisce tenersi autonomo rispetto a questo stile, che in qualche modo deve sembrargli forse troppo, diciamo così, personale o personalistico, per non dire bizzarro.
Non ho ritenuto di replicare, perchè era un incontro piuttosto veloce, se non dicendogli, appunto rapidamente, che l'espediente del cappellino ha delle precise ragioni tecnico marziali, e non risponde affatto, come potrebbe pensarsi, ad una specie di esigenza estetica, o di istrionismo.
Mi ha lasciato tuttavia, quell'incontro, la voglia di chiarire, perchè è evidente che chi non conosce la didattica del Maestro forse non può arrivare a comprendere davvero cosa il Maestro insegnava, e vale la pena di tentare di spiegare.
Anzitutto, per chi non la conoscesse, la "gag" del cappellino consiste nel modo, davvero brillante ed efficacissimo, di spiegare una forma di kokyunage, conosciuta anche come sokumen iriminage.
Il Maestro, in alcuni video, "munitosi" di un berretto chissà dove rimediato (non era certo il suo, lo avrà chiesto in prestito a qualche spettatore) illustra il movimento delle braccia da eseguire in questa tecnica, portando la mano afferrata da uke alla sua spalla, salendo poi verticalmente sulla testa, per poi "passarla" sul capo come se volesse togliere il berretto, e concludendo (berretto in mano) la tecnica scaricando il peso nella direzione di uke per lanciarlo a terra.
Occorre fare una premessa.
Il Maestro non si presentava a lezione con un cappellino, e personalmente avrò visto spiegata quella tecnica decine di volte (era praticamente la tecnica con la quale iniziava qualsiasi stage, sia pure con molte entrate diverse) senza avere mai assistito alla scenetta del berretto, il che è per dire che non c'era proprio alcun istrionismo fine a se stesso.
Detto questo, perchè, bisogna chiedersi, Fujimoto eseguiva la tecnica in quel modo?
La ragione è, piuttosto lapalissianamente, quella di avvicinare uke a tori, e realizzare il waza nella misura più elegante, efficace e naturale possibile.
Se uke afferra solidamente, risulta molto faticoso entrare direttamente con il kokyunage sotto il suo mento, perchè il suo braccio sarà in estensione, la sua postura dritta, la sua attenzione focalizzata a bloccare.
Il rischio, allora, è di lavorare eccessivamente con la muscolatura del braccio, o dovere anticipare tantissimo il movimento pena la assoluta inverosimiglianza della effettiva riuscita della tecnica.
Richiamando la nostra mano afferrata alla spalla, con il palmo completamente rivolto verso la nostra scapola, l'effetto sarà invece quello di costringere uke ad avvicinarsi a noi, e a rimanere più basso rispetto a noi, con l'effetto di realizzare una condizione di vantaggio.
Una volta creata quella condizione, dovendo entrare verso la testa di uke, il modo più razionale di rendere meno resistente possibile la sua presa sarà appunto quello di salire dalla spalla verticalmente verso il nostro capo, il tutto con un duplice effetto: non aprire immediatamente la nostra ascella, e dunque rimanere dominanti (perchè uke non ha alcuna possibilità di impedirci di compiere quel movimento) e al contempo intercettare il suo mento in modo da rovesciarlo, in tal modo compromettendo il baricentro del partner e proiettarlo facilmente.
Il Maestro insisteva molto sulla necessità di richiamare uke, in tutte le tecniche.
Un aggressore vicino, per quanto possa sembrare strano, è meno pericoloso di uno che si trova a distanza perfetta per sferrare un colpo con le gambe o con le braccia.
Inoltre, è posto ad una distanza tale da poterlo colpire, ed è dunque un aggressore "preoccupato" da questa evenienza, che deve difendersi, e dunque è meno aggressivo.
Infine, la nostra postura, essendo raccolta, è quella maggiormente razionale per sprigionare la massima potenza possibile, con tutto il corpo.
Inoltre, tornando alla pratica aikidoistica, è unione.
Molte scuole di aikido filosofeggiano parlando di unione tra tori e uke, unicità e annullamento della dualità, ma poi fanno, nell'esecuzione, un aikido prettamente unilaterale, nel quale i due partner non sono affatto unici nella direzione dei loro corpi e hanno ruoli e atteggiamenti diametralmente opposti.
Il Maestro sollecitava ad unire le direzioni, rimanere vicini, in una parola realizzare, nei fatti e non con le parole, quella condizione di unione che altri si limitano ad enunciare.
Il cappellino, allora, era l'essenza stessa dell'aikido fujimotiano.
Era una brillante soluzione didattica, di quelle che rimangono straordinariamente vive nello sguardo e nel ricordo di chi assiste, e tuttavia era strettamente funzionale alla spiegazione di una tecnica e ancora di più di un principio che realizzava davvero e pienamente i "valori" della corretta esperienza aikidoistica.
Un giorno cercherò di spiegarlo a quell'amico.
Intanto spero di avere almeno un minimo chiarito la faccenda.
Non dovessi essere stato efficace .... a me un berretto, please!

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