L'Aikikai d'Italia

sabato 24 dicembre 2011

L'appagamento dell'insegnante

"Chi possiede un Dojo, sarà oppresso da tante occupazioni, come l'amministrazione a altre cose del genere, che diverrà meno devoto del Budo. Di conseguenza la sua abilità tecnica diminuirà".
Sono parole di O' sensei, confermate del resto dalla sua storia personale.
Al progressivo consolidarsi dell'aikido, dovuto alla sua opera e alla sua genialità marziale, non ha mai fatto riscontro la trasformazione di Ueshiba Morihei in gestore della struttura che si andava creando e affermando, avendo egli sempre delegato, anzitutto al figlio e a Osawa sensei ogni aspetto che non fosse semplicemente di studio e didattica aikidoistica.
Raccontano difatti le sue biografie che non appena un dojo iniziava ad avere un buon numero di praticanti, e appariva essere in grado di camminare da solo, ecco che O' Sensei se ne distaccava, recandosi in altre città ove vi fosse bisogno di radicarsi.
Non credo, a leggere quanto viene raccontato di lui, che il Maestro Ueshiba lo facesse per il solo fine di diffondere l'aikido, parendomi piuttosto che egli rifiutasse appunto l'idea di diventare un amministratore.
Lui voleva praticare, studiare.
Tento sempre di ispirarmi a questo insegnamento.
Qualche anno fa il Maestro Fujimoto, all'esito di una sessione di esami Yondan insolitamente generosa, spiegò che quello poteva essere il suo ultimo esame (predizione per fortuna poi smentita), e che dunque non voleva bocciare nessuno. Lasciò chiaramente intendere, tuttavia, di essere rimasto profondamente insoddisfatto dalle prestazioni di alcuni esaminati (degli aspiranti quarti dan approssimativamente una metà erano molto bravi, mentre per la rimenente parte erano bravi per niente), alcuni dei quali erano per di più responsabili di dojo. A quel punto il Maestro disse, rivolgendosi a loro ma in realtà a tutti, che occorreva, una volta nominati responsabili di dojo, o comunque divenuti insegnanti, continuare a studiare, recandosi a praticare anche fuori dal proprio dojo in modo da recuperare il tempo dello studio altrimenti dedicato all'insegnamento.
Insegnare difatti è appagante, gratificante.
Decidiamo noi cosa fare e come farlo. Quali tecniche chiamare e quali no, lo stile con cui eseguirle e il tempo dell'allenamento tutto.
Continuamente arrivano nuovi praticanti, o tornano gli assenteisti cronici che periodicamente, dopo lunghe assenze, rimettono piede sul tatami avendo dimenticato tutto o quasi di quanto avevate loro tentato di insegnare.
Questo comporta la necessità di rallentare, di tornare alla base più elementare.
Non è, anche sotto il profilo tecnico, del tutto negativo, perchè anche questo tipo di allenamento, se fatto con l'atteggiamento giusto e con la voglia di imparare davvero, determina una buona crescita anche per l'istruttore.
Tuttavia, la pratica di un insegnante non deve arrestarsi a questo.
Dobbiamo uscire dal dojo, tornare allievi di qualcuno del quale seguire le direttive, sottrarci alla tentazione di "giocare solo in casa".
Mi è capitato spesso di vedere, nel corso degli anni, persone che mi sembravano avere un ottimo livello, rimanere poi bloccate in quello stadio, o peggio essere regredite.
Questo non perchè abbiano smesso di fare aikido, ma perchè hanno magari cominciato a insegnare, dimenticandosi l'aspetto della pratica pura.
Il rimedio a questo è a mio giudizio quello di recarsi presso altri dojo, sempre che vi si lavori bene, periodicamente e non solo "una tantum", in modo da riconquistare una dimensione di semplice praticante almeno per una parte del proprio percorso aikidoistico.
Occorre poi partecipare assiduamente agli stage, possibilmente quelli nei quali si lavora di più e con maggiore intensità, evitando di sottrarsi al giudizio di veri Maestri, o per lo meno di istruttori molto qualificati, che siano a loro volta sotto la direzione di uno shihan.
Il rischio è altrimenti quello di perdere la possibilità e la voglia di progredire.
Non credo, sinceramente, che si possa fare da soli, nel chiuso del nostro dojo, un serio cammino di vita quale dovrebbe essere quello aikidoistico.
Nè basta fare uno o due stage all'anno per rimediare all'isolamento al quale ci siamo condannati.
Anche la storia del Giappone, del resto, dovrebbe avercelo insegnato.
Chiusi per oltre tre secoli in se stessi, i giapponesi scoprirono improvvisamente, "grazie" alle cannonate di una nave da guerra statunitense, quanto il loro isolamento avesse reso obsolete e inadeguate le loro conoscenze, e quanto fossero fragili e indifesi di fronte ad un mondo che tanto avevano disprezzato, e che nel frattempo aveva corso superandoli e umiliandoli per la arretratezza alla quale la loro pretesa di sufficienza e autarchia li aveva condannati.
Buon Natale a tutti.

sabato 3 dicembre 2011

Breve cronaca dello stage di Milano

Si è svolto a Milano, lo scorso fine settimana, uno stage diretto dal Maestro Fujimoto.
Il Maestro ha guidato entrambi gli allenamenti, il secondo dei quali, quello della domenica mattina, si è protratto come oramai è consuetudine per tre ore.
Questo già dice enormemente della straordinaria forza di volontà di Fujimoto shihan, della sua impressionante capacità di reazione alle avversità e della sua ferma intenzione di trasmettere la maggiore quantità possibile di informazioni e conoscenze (soprattutto, lo dice spesso, a coloro i quali hanno o avranno responsabilità di insegnamento).
Registro, infine, la perdurante assenza  a questi appuntamenti dei membri della direzione didattica, e questo non perchè si sia sentita la loro mancanza, ma perchè mi pare evidente che da queste lezioni avrebbero senza dubbio da imparare, e anche molto.
Comunqe, ce ne faremo una ragione.
Sotto il profilo tecnico, il raduno ha messo l'accento sulla necessità di comprendere bene i movimenti di base, affinchè le tecniche possano scaturire correttamente da essi.
Il Maestro ha dunque chiesto di provare e riprovare shi ho giri, non soltanto in piedi, ma soprattutto in shikko.
Ne ha illustrate due forme: l'una meno fluida, nella quale l'ingresso con il passo posteriore, e dunque l'irimi, è seguito soltanto dal kaiten, immediato, cosicchè occorre poggiare il ginocchio che è entrato e alzare quello divenuto posteriore, nel contempo alzando le braccia e poi calandole dopo avere cambiato direzione nel gesto del fendente di spada; l'altra, più continua, caratterizzata dal fatto che il movimento di entrata viene portato a termine, nel senso che il ginocchio con il quale si è compiuto irimi viene portato sino a terra, riproducendo uno shi ho giri nel quale dapprima, in entrata, si fa tsuki, e solo dopo, nell'altra direzione, si inizia  il gesto di shomen uchi, tenendo il ginocchio davanti alzato.
E', sostanzialmente, la riproduzione delle due forme di shi ho nage omote in hanmihantachi waza.
La prima più per principianti, la seconda più per avanzati, con le ginoccha finali entrambe giù (nella tecnica infatti, a differenza che nel tai sabaki, il ginocchio viene, in questa forma, portato a terra per controllare uke), e che tuttavia spesso fa sì che uke venga scaricato a terra senza che tori riesca a imprimere una precisa direzione, finendo quest'ultimo per sbilanciarsi, e non essere in grado di esercitare alcun controllo sul partner.
Avviso ai naviganti.
Il Maestro ha lasciato chiaramente intendere che questo costituirà materia di esame, soprattutto per le cinture nere e per gli aspiranti shodan.
Lo stage è poi proseguito con la indicazione del Maestro a individuare alcune tecniche fondamentali e di base, ossia ikkyo, shi ho nage, irimi nage, kote gaeshi, kaiten nage, e a praticare partendo sempre da esse, facendone scaturire poi le tecniche "figlie".
Un invito analogo mi è capitato di sentirlo fare anche all'attuale Doshu, che suggeriva di dividere i waza per "famiglie", praticando con questa idea e dunque sviluppando le attitudini che ciascun gruppo di tecniche ha in sè.
Tipico è il caso delle tecniche di immobilizzazione (osae o katame waza), tutte scaturenti da ikkyo.
In altre parole, noi insegnanti dovremmo evitare di iniziare le lezioni da uchi kaiten sankyo, tanto per fare un esempio, o da ude garame.
Su questo filone, il Maestro ha proposto allora uno studio di queste tecniche di base, e di ikkyo in specie, da prese, e in particolare dalla temibile e "fastidiosa" katateryotetori, della quale ha illustrato diverse modalità di evasione, alcune più statiche altre più dinamiche, insistendo per tutte però sul corretto atteggiamento da avere da parte di tori, e sulla necessità di chiudere l'ascella, o colmare lo spazio che lo divide da uke prima di "piazzare" la tecnica.
Inoltre, ha richiamato l'attenzione sulla necessità, nelle tecniche di "ura" (inteso come buio, ciò che non si vede), di porsi alle spalle di uke, cercando questa condizione come attitudine da sviluppare in senso marziale.
Abbiamo fatto, naturalmente, anche altro, ma questa è stata l'essenza del raduno.
Per lo stage di natale, non dovrebbero esserci serie preoccupazioni, e dunque è stato confermato.
Invito ancora una volta, allora, chiunque abbia davvero voglia di imparare, a non farsi sfuggire altre occasioni per praticare con il Maestro, perchè non è detto che ci saranno altre chance.
Ma questo lo dico più in generale, a prescindere dalle condizioni di salute di Fujimoto shihan.
Quello che c'è oggi non è detto che ci sarà anche domani.
E' triste, ma è così.
"Ichi go, ichi e", dunque, è un ammonimento e un invito che dobbiamo avere sempre presente, in tutto quello che facciamo e che ci sta a cuore.
Buon allenamento a tutti.

sabato 19 novembre 2011

Il corretto atteggiamento da avere nella pratica

Mi capita spesso di dovere interrompere la lezione per spiegare, o almento tentare di spiegare, alcune delle (per così dire) precondizioni di una corretta e fruttuosa pratica aikidoistica.
Sia chiaro, io mi ritengo soltanto un divulgatore, e dunque tento di evitare il più possibile innesti personalistici, pure inevitabili alla luce dell'eseperienza fatta e comunque acquisita.
Spesso, la difficoltà dell'insegnante, quella principale intendo, è quella di rendere comprensibili le dinamiche dell'esercizio proposto, in modo da evitare i due atteggiamenti simmemtricamente errati.
Nell'aikido, difatti, non si combatte, non si lotta, e uke e tori si alternano nello sperimentare la tecnica ben sapendo esattamente cosa'altro sta per fare ed eseguire.
Non c'è, in altre parole, sorpresa.
Eppure, e qui sta la difficoltà, occorre ricreare quelle condizioni di sorpresa, perchè altrimenti non c'è tecnica e non c'è aikido.
Deve "fare finta" di essere sorpreso Tori, nel senso che la sua reazione all'attacco deve essere connotata da immediatezza, decisione, attenzione e "definitività".
Io che eseguo, insomma, so che sta arrivando, ad esempio, una presa al polso, ma devo agire con lo stesso atteggiamento che avrei ove quella che arriva non fosse, o potesse non essere una presa ma un pugno, o peggio, una coltellata.
Devo, dunque, anticipare quel tanto che serve per evitare che la presa si consolidi, devo uscire dalla linea di attacco ponendomi nel punto morto (shikaku) di uke, devo, pure non portando l'atemi (il colpo ai punti deboli, kyusho), avere la stessa postura che dovrei assumere ove quell'atemi volessi portare (per esempio, caricare il busto e l'anca).
Non devo, in sostanza, agire debolmente e in ritardo "perchè tanto è una presa e non può farmi male".
Allo stesso modo, Uke sa bene la tecnica o almeno la tipologia di tecniche che tori gli applicherà.
Sa bene che tori, salvo che si tratti di un incosciente, agirà con la necessaria lentezza e delicatezza, perchè non vuole nuocergli.
Probabilmente, e nella maggior parte dei casi, sa anche perfettamente da quale direzione tori uscirà dall'attacco.
Dunque, perchè la pratica possa avere luogo, deve assumere l'atteggiamento (del corpo, è chiaro, non mentale) di chi venisse sorpreso, e appunto ricreare lo sbilanciamento e le movenze che plausibilmente avrebbe ove quella sorpresa davvero vi fosse.
Deve, dunque, agire come se l'atemi di tori arrivasse, o potesse arrivare.
Deve, di fronte allo spostamento di tori, evitare di seguirlo immediatamente, perchè questo, di fronte ad una reazione inaspettata, non potrebbe normalmente accadere.
Deve, quando subisce l'evasione dell'altro, tentare di riposizionarsi accettando lo squilibrio che quello in questo modo ha determinato.
Se tutto questo non c'è, allora non ci può essere aikido.
E' una pena, davvero, vedere alcuni praticanti che ignorando tutte queste dinamiche, realizzano una tecnica nella quale uke attacca svogliatamente e senza alcuna marzialità (ho visto spesso qualche vecchio trombone, ma lo stesso vale per i loro allievi, attaccare guardando altrove, e un attimo dopo magari avere anche l'ardire di sperticarsi in istruzioni tecniche e marziali), e tori reagire senza uscire dalla linea d'attacco, in maniera scoordinata e goffa, magari enfatizzando oltre misura un atemi portato malissimo ma con atteggiamento da samurai medievale e implacabile.
Di solito, se il livello di idiozia è sufficientemente alto, i due finiscono avvinghiati nel tentativo di piazzare la tanto abusata kaeshi waza (restituire la tecnica, in altre parole una controtecnica), che è il regno dell'ignoranza aikidoistica.
Se tutti e due gli esecutori fanno quello che devono fare, e con l'atteggiamento giusto, non ci sono kaeshi waza, e tanto la azione che la reazione sono concentrate, dinamiche, e catalizzatrici dell'energia, come sarebbero se, appunto, il contesto fosse davvero quello marziale, e dunque l'esercizio stesso fosse connotato da potenziale definitività.
Questo è l'insegnamento sul quale insiste molto il maestro Fujimoto, assai più delle tecniche in se stesse.
Questo atteggiamento è la precondizione perchè la pratica aikidoistica possa essere credibile, conforme alla tradizione marziale di provenienza, e dunque perchè la nostra difficile e complessa disciplina possa sopravvivere nel tempo.
A mio giudizio, un insegnante che non trasmetta questi canoni di comportamento, non fa bene il suo mestiere.
Agli allievi e studenti mi permetto di dire di verificare, vagliare, scrutare cosa fanno gli altri al di fuori del proprio dojo, e mettere sempre in discussione l'operato e il vero valore del proprio istruttore.
Non siete voi ad essere al nostro servizio, ma noi insegnanti al vostro, e al servizio dell'aikido tutto.
Buon allenamento.

sabato 29 ottobre 2011

Stage a Foggia con sensei Casale

Arriva la conferma di quello che è oramai un appuntamento tradizionale della nostra piccola associazione e dell'aikido foggiano in generale.
Anche questo novembre si terrà lo stage con Domenico Casale, V dan dell'aikikai d'Italia, responsabile del Waka Ki Dojo di Bari.
Mi reco, l'ho già scritto, settimanalmente ad allenarmi in quella struttura, e mi considero un appartenente a quel dojo e non solo un ospite sia pure assiduo.
In quasi tre anni di lavoro con loro, posso ritenermi sicuro di avere compiuto significativi progressi e di avere conseguito nuovi traguardi nella mia crescita aikidoistica, e, lo ripeto, ho potuto affrontare e superare senza particolari problemi un momento impegnativo come l'esame di sandan con il Maestro Fujimoto in gran parte grazie a questa esperienza.
Dunque consiglio a chiunque legga di seguirmi e venire a provare, si tratta di allenamenti intensi e al contempo gioiosi, che sono certo piaceranno a chiunque abbia davvero voglia di imparare e progredire.
Mimmo lo conoscevo da sempre, perchè quando io ho iniziato, nel lontano 1990, lui era uno dei "giovani leoni", la definizione è mia, che vedevo fare da uke ai Maestri giapponesi e che ammiravo intensamente.
Hanno rappresentato, a mio giudizio, una generazione che ha permesso all'aikido italiano (ma lo stesso immagino sia successo anche in altre nazioni europee) di fare un significativo salto di qualità, superando la fase pionieristica (inevitabilmente più grossolana e meno raffinata tecnicamente) per approare ad una più evoluta e apprezzabile.
Lo ritrovai, poi, qualche anno fa, mi sembra fosse il 2008, durante uno stage "panbarese" con tutti gli istruttori del capoluogo, tra i quali appunto vi era Mimmo.
Ebbene, le sue lezioni, a mio avviso, furono decisamente le migliori, e ne rimasi profondamente impressionato.
Inoltre, mi colpì il suo atteggiamento, umile e al contempo sicuro, quel parlare poco e mai a sproposito.
Mentre negli altri due c'era una evidente tentazione di "lasciare il segno", stupire la platea e rendere spettacolare la loro lezione, Mimmo sembrava completamente intento a insegnare e praticare, senza alcuna deriva narcisistica.
E' rimasto così, con tutta quella carica di energia e voglia di migliorarsi.
Dunque, mi raccomando, accorrete a quest'evento, c'è da imparare e da divertirsi tanto.
Vi aspetto, alla palestra Taralli, sabato 12 e domenica 13 novembre.
La locandina la inseriremo a giorni sulla sezione Raduni del portale dell'aikikai d'Italia.
A presto.

venerdì 14 ottobre 2011

Gli "stili" aikidoistici

L'aikido è, a mio giudizio senza alcun dubbio, una delle discipline nelle quali la applicazione delle tecniche lascia i maggiori margini di creatività all'esecutore.
Si tratta di un aspetto che ritengo bellissimo e che rende sotto molti aspetti unica la disciplina.
E tuttavia, si corre il rischio di cadere in una sorta di relativismo estremo, ossia in una filosofia del "va bene tutto" che rende difficile distinguere cosa è giusto da cosa è sbagliato, la personale visione di una tecnica pure corretta da quella che è semplicemente una cattiva esecuzione.
Come regolarsi, dunque, e discernere la personalità nella interpretazione dal vero e proprio errore?
La mia opinione è che questo possa avvenire se si ha ben presente quali sono i cardini marziali della tecnica aikidoistica, in altre parole se si riesce ad avere chiare le attitudini di combattimento e difesa dalle quali il waza non può prescindere se non al prezzo di decadere al rango di semplice esercizio ginnico o coreografico.
Diceva molto giustamente un grandissimo maestro, Gozo Shioda, che "accade a tutti di pensare: come eseguire questa tecnica? Come eseguire quella tecnica?; ma ciò che bisogna ricordare è che sebbene vi siano molte tecniche, dovete afferrare i principi alla base di esse. Ne deriva che dovete rapidamente spostare il vostro equilibrio, muovendo mani, piedi e fianchi come una cosa sola. Il principio che permea tutte le tecniche è il medesimo, ad esempio la stabilità del corpo, lo spostamento dell'equilibrio, il guidare l'energia, e così via. Una volta afferrati completamente questi principi, sarà naturale per voi perdere interesse per i dettagli particolari delle singole tenciche. Ciò vuol dire che, invece di pensare: farò questo, farò quello, arriverete ad un livello in cui, avendo afferrato i principi, sarà il vostro corpo a muoversi da solo secondo tali principi".
Dunque possiamo dire che esistano appunto alcuni principi di base, e che una tecnica è corretta quando, pure nella diversità dei modi di interpretarla, rispetta e soddisfa questi canoni di riferimento.
Per esempio, di fronte all'attacco, è certamente sbagliato non deviare la linea di esso, e non porsi alle spalle dell'aggressore.
Come farlo, naturalmente, è qualcosa che può ricevere molte soluzioni.
Ad esempio, qualcuno potrebbe agire sul corpo di uke, mettendolo in leva e provocandone lo spostamento, mentre altri possono scegliere di spostare il loro corpo mandando uke a vuoto.
Tuttavia, una tecnica che venisse eseguita senza porsi nel "punto morto" (shikaku) dell'avversario sarebbe certamente sbagliata, appunto perchè avrebbe smarrito la sua attitudine marziale.
Gli esempi potrebbero essere molti altri.
Così, ancora, occorre generalmente fare in modo che il corpo sia sempre ben bilanciato, e dunque tentare di assicurarsi sempre un perfetto equilibrio facendo sì che allo spostamento di un braccio faccia riscontro un correlativo spostamento del piede in modo da non perdere il baricentro giusto.
Occorre, inoltre, evitare di aprire le ascelle, perchè altrimenti finiremmo per indebolire la nostra capacità di urto e di resistenza alle spinte e controspinte di uke.
Voglio dire, in conclusione, che non tutto è consentito, e che la libertà dei modi di esprimersi non va confusa con una sorta di licenza poetica in forza della quale ognuno fa come più gli aggrada.
Nell'aikido, per scelta del Fondatore alla quale noi tutti abbiamo aderito, non si combatte, e pertanto la verifica della corretta esecuzione non passa per il confronto in un duello.
E' indispensabile, allora, una forte autodisciplina, e volontà di non discostarsi dai principi marziali di base di cui parlava il maestro Shioda.
E' altresì necessario, per gli insegnanti, studiare sempre e bene, avere una profonda comprensione delle dinamiche che la tecnica va a ricreare, non stancarsi mai di limare e perfezionare la propria esecuzione, perchè è questa la condizione imprescindibile affinchè si possano afferrare le linee guida e trasmettere un sapere davvero maturo e reale, che divenga patrimonio comune del dojo e possa sopravvivere al tempo e alla inevitabile "temporaneità" della nostra presenza.
Gli insegnanti valorosi non solo quelli che eseguono complicatissime tecniche artificiose e spettacolari, o cianciano di energie cosmiche e illuminazioni, ma quelli che posseggono e trasmettono correttamente i principi e le tecniche di base attraverso un serio e quotidiano lavoro di autoperfezionamento.

sabato 1 ottobre 2011

Lo studio delle armi nell'aikido

La pratica aikidoistica prevede lo studio, oltre che delle tecniche a mani nude, di tre tipi di armi, tutte riconducibili all'equipaggiamento e al bagaglio di conoscenze del guerriero feudale giapponese, il c.d. samurai o, in un certo senso più appropriatamente, del c.d bushi.
Le armi in questione sono la spada, il bastone e la daga.
La spada che si utilizza è denominata "bokken" o più raramente "bokuto", e vuo dire, letteralmente, spada (ken) di legno (bo).
Si tratta di un attrezzo che riproduce, per quanto non del tutto fedelmente, la forma, le dimensioni ed il peso della katana, la tipica spada del bushi, simile alla sciabola europea, con il filo da un lato solo della lama e nella parte superiore, e di lunghezza approssimativamente vicina al metro.
Il jo è un bastone "corto", di lunghezza generalmente pari a circa 1,20 m.
Si dice che è corto nel senso che è "più corto" del bastone normalmente usato nel kobudo giapponese (ma a dire il vero si trova anche nel wushu cinese e nel c.d. kobudo di Okinawa) e chiamato in giapponese Bo.
E', il jo, un'arma che è al contempo uno strumento per l'allenamento alle tecniche della lancia e dell'alabarda (yari e naginata, come appunto il bokken lo è per lo studio delle tecniche della katana), delle quali è tuttavia sensibilmente più corto, ma anche un'arma "originaria", il cui utilizzo era assai diffuso stante la sua facile "portabilità" (è noto difatti che il porto delle spade era consentito soltanto ai bushi, ed era precluso ad altre categorie sociali), e perchè assecondava esigenze etiche di chi voleva sì difendersi ma senza uccidere.
Il tanto, infine, è uno strumento in legno costruito per riprodurre le forme della corrispondente arma che i bushi portavano anche per combattere, ma anche per uccidersi con il suicidio rituale (il noto "seppuku" o meno nobilmente "harakiri", ossia taglio del ventre).
Perchè si studiano le armi nell'aikido, posto che l'aikido, nelle intenzioni del Fondatore, era disciplina della non violenza e dell'amore universale?
O sensei una riposta non l'ha mai propriamente fornita, ma è noto che in un primo momento avesse espunto lo studio delle armi che ha poi progressivamente recuperato.
Ebbene questo studio è necessario anzitutto perchè l'aikido è disciplina modernissima ma al contempo estremamente tradizionale, cosicchè parrebbe incompleto un recupero della tradizione marziale giapponese che si privasse in blocco di quella che ne è stata la parte fondamentale, ossia le armi del bushi (ricordiamo difatti che le tecniche a mani nude sono un fenomeno relativamente recente, sviluppatosi autonomamente soltanto con la modernizzazione del giappone avvenuta verso la fine del diciannovesimo secolo e la proibizione al porto delle armi anche per i samurai; ancora adesso, infatti, molte tecniche di aikido partono dal presupposto che chi attacca intenda impedire a che si difende di impugnare la spada o il coltello).
In secondo luogo, perchè gran parte dei waza di aikido derivano pesantemente dai concetti sviluppati dalle tecniche armate, cosicchè sarebbe difficile penetrare le tecniche aikidoistiche se non si capisce quali sono quelle dalle quali esse derivano (basti pensare che quasi tutti gli attacchi dell'aikido sono attacchi di spada, e che la tipica "guardia" dell'aikido, il c.d. hanmi, letteralmente"metà corpo", è la guardia del lanciere).
Infine, perchè nell'aikido le armi sono usate comunque in maniera "inoffensiva", nel senso che sono espunte le tecniche definitive, pericolose e mortali.
Se si osserva difatti una combinazione di aikiken (ossia, traducendo molto ma molto liberamente, "la spada come si usa nell'aikido") ci si avvede facilmente che il colpo non viene portato a termine, essendo l'intento dei praticanti soltanto quello di sperimentare la tecnica di arma per meglio comprendere quella aikidoistica.
Non vedrete mai, in altre parole, l'aikidoka anticipare il compagno per piazzargli un taglio mortale all'addome, come invece fa lo spadaccino.
Lo stesso si può osservare nei kata, anche di coppia (i c.d. kumitachi o kumijo), nei quali normalmente la chiusura dell'esercizio è con una tecnica dissuasiva e non mortale (del tipo "non muoverti o ti faccio secco").
Anche difendendosi dal coltello (è piuttosto lungo e impressionante) l'aikidoka generalmente si muove per disarmare e impossessarsi dell'arma, mai per uccidere l'aggressore, in ciò differenziandosi notevolmente da una corrispondente tecnica di ju jitsu, che si chiude normalmente con la simbolica eliminazione, di solito per sgozzamento, di uke.
Dunque, non c'è nessuna incoerenza nell'uso delle armi nell'aikido rispetto al messaggio che lo connota.
A mio giudizio, le tecniche di arma sono molto importanti, anche in un'ottica difensiva, perchè sviluppano molto bene la profindità dell'attacco dell'aggressore, la necessità di porsi nella sua linea morta (c.d. shikaku, il punto in cui noi possiamo attaccarlo e lui non può farlo), la doverosità di un atteggiamento concentrato e serio nella pratica (quando arriva l'attacco di arma distrarsi è una pessima idea, a differenza delle mani nude nelle quali qualche volta questo accade e senza serie conseguenze).
Inoltre, studiare le armi è davvero un tuffo nel Giappone feudale, e nel suo straordinario mondo di conoscenze marziali, una specie di luogo ideale per chi non ci si sia trovato a vivere (starci dentro era probabimente molto meno entusiasmante, con la sua enorme violenza e prevaricazione), ma che è bellissimo rivivere in maniera incruenta, tornando forse anche un pò ragazzini, come in un certo senso siamo un pò tutti noi praticanti.
E', infine, l'ennesima conferma dello straordinaro messaggio dell'aikido, una disciplina che attraverso il budo, ossia le tecniche guerriere, si fa veicolo di concetti di non violenza e rispetto universale, anche ... con una spada in mano.
Bellissimo, non credete?

sabato 10 settembre 2011

Sfoghi di settembre

Sul sito di Simone Chierchini è apparsa una lettera aperta nella quale, in sostanza, comunica la propria scelta di abbandonare l'aikikai.
Non intendo, sia chiaro, polemizzare con Chierchini, che della mia opinione d'altro canto sicuramente può fare a meno.
Tuttavia, qualche mio allievo ha letto quello sfogo e credo si domandi cosa ci sia di vero e cosa di, non dico falso, ma almeno molto opinabile in quanto è scritto.
Cominciamo con il dire che Simone Chiechini, lo dico con assoluta sincerità, merita il dovuto rispetto, e questo anche quando dice e fa cose, come nel caso in questione, che non condivido e non mi piacciono.
Questo non soltanto per il cognome che porta, essendo suo padre sostanzialmente il fondatore dell'aikikai di Italia, e un indimenticato e amato presidente della associazione, ma anche per la sua storia personale di aikidoka, di persona che è letteralmente cresciuta sui tatami, ha collaborato con i più importanti shihan, ha diffuso l'aikido sia sotto il profilo pratico (tra tutte la fondazione e direzione dell'aikikai of Ireland), ma anche in termini di divulgazione attraverso pubblicazioni accurate e preziose, alcune delle quali fanno stabilmente parte della mia biblioteca relativa alla materia.
Detto questo, condivido pochissimo della sua "denuncia".
Chierchini, in sostanza, dice questo.
In primis, si lamenta che dal suo ritorno in Italia, datata estate 2009, è stato trattato da estraneo dall'aikikai d'Italia.
Mi viene da chiedere, tuttavia, dove sia stato in questi due anni, perchè io non l'ho praticamente mai incontrato.
Ho partecipato in questo periodo ad almeno, non so, quaranta giorni di stage con il Maestro Fujimoto, e a tanti altri incontri di allenamento e scambio di esperienze (talvolta anche organizzandone qualcuno, anche a pochi chilometri da Vasto) con altri sensei, e senza mai, nemmeno in una occasione, incontrare e vedervi partecipare Simone Chierchini.
Dunque il dubbio è che sia stato lui a trattare la Associazione, i suoi Maestri, istruttori e praticanti alla stregua di estranei assoluti, e non, o almeno non soltanto, il contrario.
Si avventura, poi, in una ardita demolizione del maestro Tada, che tuttavia non nomina mai nel corso della lettera, sostanzialmente affermando che si tratta di un personaggio che si arroga il  "titolo" di allievo diretto di O sensei senza esserlo stato, e che si tratterebbe di un aikidoista portatore di uno stile tutto suo, magari bello, ma che nulla o quasi avrebbe a che vedere con l'aikido trasmesso dal fondatore.
Personalmente, non sono affatto "tadista", e, devo confessarlo, da qualche anno nemmeno vado più agli stage che tiene.
Non posso che notare, però, che il Maestro Tada fu inviato in Italia per volere di O sensei, che nel 1964 era vivissimo e pienamente attivo.
Tada, poi, era stato insignito, già allora, e dallo stesso fondatore, del grado (stratosferico per uno che praticava da meno di venti anni) di settimo dan, e di shihan, cosicchè mi sembra inevitabile inferirne che Tada sensei aveva il pieno gradimento del fondatore e di tutto lo staff del quale questo si avvaleva.
In una montagna di filmati e documenti di ogni genere si può vedere Tada che fa lezione con O sensei, gli fa da uke, o tiene dimostrazioni alla sua presenza.
Ma Chierchini dice, nel secondo dopoguerra Ueshiba viveva a Iwama, non a Tokyo, e dunque l'unico vero allievo diretto del fondatore era Saito sensei.
Che vivesse a Iwama, all'epoca, è vero, ma è altrettanto vero che, anche allora e sino alla morte, il maestro girava e viaggiava continuamente, e stazionava per lunghi periodi anche nella capitale.
Dovremmo ricordare, poi, che il tempo di frequenza, che è pure un dato da prendere in considerazione, non è un parametro del tutto affidabile, se lo si considera separatamente dalla intensità dell'allenamento e il talento e l'impegno di chi pratica.
Basti pensare che il fondatore stesso, come le sue biografie ci insegnano, praticò meno di un anno con Sokaku takeda, dal quale tuttavia ottenne la abilitazione all'insegnamento del Daito Ryu e il riconoscimento della padronanza di tutte le tecniche della disciplina madre in meno di cento giorni di allenamento.
Ma poi arriva la conclusione di Chierchini.
Vado nella Iwama Ryu, cioè nella Associazione di Saito, perchè lì hanno la didattica migliore, quello è il vero aikido del Fondatore, e poi, a differenza dell'aikikai, non reprimono il dissenso.
Il giochino "chi fa l'aikido di O sensei" mi sembra davvero sciocco, perchè, ammesso e non concesso che Saito facesse l'aikido che nel dopoguerra insegnava il Fondatore (eppure, a giudicare dai filmati, le differenze mi sembrano enormi e chiaramente visibili), rimane da stabilre perchè, in un'ottica di "conformità e fedeltà" al fondatore dovremmo prendere in considerazione la fase finale della vita e dell'insegnamento di O sensei.
Sappiamo bene, in altre parole, che altri grandi Maestri e le associazioni che ne sono derivate hanno rivendicato e rivendicano la maggiore veridicità del loro aikido a quello "originario".
Per esempio, lo Yoshinkan, filiata da Gozo Shioda, esprime un aikido davvero antico e direi originario.
D'accordo, si risponderà, ma l'ultimo aikido insegnato è quello di Iwama.
Qui, però, non si tratta di fare i giuristi e prendere l'ultima norma entrata in vigore, perchè questa non è una questione di successione di norme, ma di stili marziali.
Un praticante Yoshinkan, allora, potrebbe dire che l'aikido di Iwama è l'aikido che O sensei praticava da vecchio, mentre quello vero, che realmente esprime la sua volontà e il suo progetto è quello precedente, elaborato quando ancora il vigore e l'entusiasmo erano nel pieno della loro espressione.
A mio giudizio queste discussioni non portano a niente.
Quando ancora O sensei era in vita già i suoi più stretti collaboratori si differenziavano ampiamente nel modo di praticare, senza che il fondatore contrastasse questa tendenza.
Quanto all'aikikai di Italia, essa è certamente espressione dello stile di Tada sensei, ma in questo non c'è niente di anomalo, posto che è esattamente quello che è accaduto in tutte le nazioni e nelle associazioni che vi risiedono.
Infine, l'aikikai Italia ha certamente tanti difetti, ma proprio non si può sostenere che sia una associazione intollerante e repressiva del dissenso.
Al contrario è una struttura decisamente plurale, all'interno della quale opera chiunque e qualunque stile lo contraddistingua, e senza che mai nessuno si sia mai sognato di imporre alcunchè, nemmeno a Chierchini.
Questo è coerente, d'altronde, con la natura della Associazione che è quella di essere la casa madre dell'aikido italiano, come la Zaidan Hoijin Aikikai, la Aikikai Foundation, è la casa madre su scala mondiale.
Ma poi, Chierchini troverà pace nel mondo Iwama?
So benissimo che lavorano seriamente, questo nessuno lo mette in discussione.
 A me, però, sembrano dei soldatini, tutti uguali, e che si tratti di ambiti nei quali non c'è alcuno spazio per la creatività, l'espressione della propria personalità aikidostica.
E' un mondo, poi, che ha conosciuto, all'indomani della morte del caposcuola, una miriade di scissioni e rotture, cosicchè definirlo tollerante e aperto mi pare una fenomenale cantonata.
Comunque, in bocca al lupo, per quanto ho la sensazione che, tra non molto tempo, sentiremo il buon Chierchini scrivere una nuova lettera al mondo dell'aikido, dal titolo "io mi chiamo fuori ... di nuovo".

giovedì 1 settembre 2011

Tempo di riprendere

Eccoci di nuovo.
Non tutti i dojo arrestano l'attività per i due mesi estivi, ma io credo che in fin dei conti si tratti di una pausa necessaria, rigenerante e preziosa.
Riprendere è dunque a maggior ragione più bello ed eccitante, o almeno è generalmente questo lo stato d'animo che mi accompagna alla ripresa settembrina.
Anche quest'anno è così.
Il Maestro Fujimoto, lo aveva comunicato ai responsabili di dojo già a Laces, ha fissato un bel calendario di stages.
Speriamo che la salute lo assista.
Ancora una volta il mio pressante invito, soprattutto a cinture nere e istruttori in particolare, è a non lasciarsi sfuggire queste occasioni per praticare sotto la guida di un genio di quella caratura.
Per quanto ci riguarda, quest'anno ci sono diverse novità.
Dal 26 settembre aprirà la nuova struttura presso la quale quest'anno saremo ospitati.
Sino ad allora, dunque, continuiamo ad allenarci presso il CUS Foggia.
I giorni saranno il martedì ed il giovedì, gli orari sono quelli soliti, ossia 18.30- 20.00.
Ricordate che le formalità sono le solite.
Presentazione di un certificato medico di sana costituzione, tesseramento al CUS, iscrizione all'aikikai d'Italia.
In cantiere c'è anche l'apertura di un corso a San Severo, ma di questo parleremo più avanti.
Quanto agli appuntamenti che pensiamo di organizzare, l'idea è quella di confermare i due stage abituali con Casale e Foglietta, ma l'intenzione di questa stagione è quella di estendere anche a qualche altro sensei, possibilmente giovane ed emergente.
Vedremo, ma molto dipende da quale partecipazione ci potremo aspettare.
A brevissimo potrò essere più preciso.
Buon rientro a tutti.

lunedì 11 luglio 2011

Laces 2011

Si è aperto il 2 luglio e chiuso il sabato successivo il consueto stage di Laces, diretto da oltre venti anni dal Maestro Fujimoto Yoji, VIII dan aikikai d'Italia e shihan dell'Honbu Dojo.
Il Maestro ha svolto tutti i quattordici allenamenti nei quali si è articolato il raduno, ad eccezione di tre pomeriggi, nei quali a dirigere sono stati i sensei Foglietta, Travaglini  (entrambi sesto dan) e Cardia (quest'ultimo insignito in occasione dello stage del quinto dan).
Tecniche ne abbiamo viste tante, ma come è abbastanza usuale il Maestro si è concentrato su alcuni concetti fondamentali.
Quest'anno il leit motif era quello di reagire all'attacco di uke senza entrare nella sua guardia, bensì allungando l'attacco ed enfatizzando il conseguente sbilanciamento dell'aggressore.
Abbiamo praticato questo modello di reazione da attacchi di ogni tipo, laterali e frontali, dall'alto e dal basso, ma si è trattato di un lavoro particolarmente propedeutico ad uscite da pugni al viso (jodan tsuki) o da situazioni nelle quali è pressochè impossibile altro sistema (come ad esempio con attacchi in shomen uchi ma in condizioni di hanmiantachi waza, ossia con uke in piedi e tori in ginocchio).
In questi casi, difatti, è sostanzialmente impedita ogni altra strategia di evasione, nel primo caso perchè le caratteristiche di un attacco lungo e potente come è il pugno diretto al viso (o la coltellata) non permettono di entrare, nel secondo caso (percussione in hanmiantachi) perchè il dilivello tra l'altezza di uke e quella di tori, e la condizione di maggiore immobilità e precarietà di equilibrio di chi esegue la tecnica non permettono altra soluzione che appunto quella di "abbassare" l'uke e sbilanciarne profondamente la postura altrimenti solida e "pericolosa".
Il concetto, in sostanza, è quello di "allungare" uke e il suo attacco, ottenendone un forte squilibrio, creando una condizione di vantaggio tale da consentire di "piazzare" la tecnica.
Inultile dire che è stato interessantissimo, e che, ancora una volta, ci si rende conto di come lo studio serio dell'aikido passi per un approccio di questo genere, che non esiterei a definire "scientifico".
Reagire ad un attacco piuttosto che ad un altro, questo scopro sempre più praticando sotto la direzione del Maestro, e più in generale praticando "seriamente", non è sempre uguale (può sembrare una affermazione banale, ma è qualcosa che ho davvero compreso in tempi relativamente recenti, e che credo in tantissimi, in realtà, ignorino).
Cercherò di trasmettere questi concetti ai miei studenti.
Per quanto concerne il Maestro Fujimoto, ha dimostrato ancora una volta una forza fisica e morale letteralmente impressionanti.
Questa è una lezione ancora più preziosa e profondissima, che è difficile descrivere efficacemente.
Comunque non è ancora il momento.
Ci sono stati gli esami, con bocciature (quest'anno non poche) e promozioni. Qualcuno dunque si è rovinato l'estate, qualcun altro ora si sente molto bene.
A entrambi il Maestro ha raccomandato di studiare sempre meglio, e iniziare a preparare il prossimo esame, dimostrando nella prossima sessione una preparazione sensibilmente migliore.
Buone vacanze a tutti, la nostra stagione di allenamenti dovrebbe riprendere a settembre in una nuova struttura, nella quale forse, finalmente, potremo allenarci in condizioni più consone alle caratteristiche della nostra disciplina.

mercoledì 29 giugno 2011

Veloci cenni al ruolo di uke

Mi è capitato, talvolta, di sentir dire al Maestro Fujimoto che "nell'aikido tutto è per finta, ma dobbiamo fare finta per bene". Qualcuno sarà rimasto un pò sconcertato, ma a me quello che vuole dire pare invece chiarissimo. Nell'aikido, potremmo parafrasare, è al contempo "tutto vero e tutto falso".
E' tutto falso per tante ragioni (la più ovvia delle quali è che non stiamo combattendo, e dunque l'attacco e la reazione ad esso sono ovviamente prive di definitività e reale volontà di sopraffazione), ma soprattutto perchè la tecnica aikidoistica stessa è, mi è già capitato di dirlo, un esercizio che trascende la tecnica marziale per finalità etiche e di benessere psico motorio. E' tuttavia tutto vero, nel senso che gli aikidoka devono ricreare, nei limiti del ragionevolmente possibile, le stesse condizioni che si verrebbero a determinare ove lo scontro fosse reale. E' qui che viene in rilievo la figura di uke. Si tratta, per chi non fosse del ramo, di colui che ricopre il ruolo dell'aggressore. Nell'aikido, però, a differenza delle altre discipline di origine marziale, riveste una importanza del tutto peculiare, e vi si dedica, almeno nelle scuole migliori, una attenzione tutta speciale. Qualcuno dirà che è perchè l'aikido non è un'arte marziale, è come una danza. L'ho già detto, questa è una colossale schiocchezza, che fa parte di un certo schiocchezzaio diffuso anche nella nostra associazione. Uke è importante proprio per la ragione opposta, ed è, lo studio sulla sua figura, proprio la più evidente prova della rigorosa marzialità dell'aikido. Uke difatti è importantissimo perchè deve creare le condizioni perchè i principi marziali e le attitudini di combattimento presenti nelle tecniche aikidoistiche possano realmente svilupparsi. Uke, in altre parole, deve accettare, tanto nel momento dell'attacco che dà inizio all'esercizio, quanto nel momento dello svolgimento della tecnica da parte di tori, quelle condizioni di sbilanciamento, profondità dell'attacco e volontà di reazione che si determinerebbero in un aggressore capace al combattimento nell'evenienza in cui venisse realmente sorpreso dalla reazione di tori.
Se tori esce laterale, allora, uke deve ricreare, appunto accettandolo, lo sbilanciamento e la perdita di equilibrio che subirebbe ove venisse, attaccando con profondità, sorpreso dalla reazione. Deve, se afferra, cercare come può di non mollare la presa. Deve, se cade, tentare di rialzarsi.
E' questo allora, che il Maestro intende dire.
Nell'aikido siamo in palestra, con un amico di fronte, a "giocare" al combattimento, ma perchè quel "gioco" possa essere addestramento al combattimento, e avere un senso, bisogna farlo con l'intenzione di fare le cose terribilmente bene, accettando il ruolo che in quel momento ci compete nel senso più pieno e con la massima serietà, e questo soprattutto quando assolviamo al compito di uke.
L'aikido è questo, o lo si fa per bene, oppure non andrà avanti, perchè se si riduce ad una pantomima senza consapevolezza, a mio parere è destinato irrimediabilmente ad esaurirsi con gli anni.
Ricordiamolo tutti, soprattutto noi insegnanti attuali e futuri.

venerdì 3 giugno 2011

Gli atemi nell'aikido

Con atemi si indicano le percussioni, ovverosia i colpi.
"Ate", difatti, può essere tradotto con "colpire", laddove "mi" singifica "corpo".
Atemi, dunque, vuol dire colpire il corpo dell'avversario.
Non si tratta, tuttavia, soltanto di percuotere l'aggressore in un qualunque punto del suo corpo, perchè gli atemi vanno portati soltanto o almeno correttamente nei punti c.d. deboli, in giapponese "Kyusho".
Quei, punti, cioè, che non possono essere rinforzati con l'allenamento (non è possibile, difatti, rinforzare le labbra, o gli occhi, le orecchie, o i testicoli, e così via), la cui percussione violenta provoca di solito stordimento e dolore intenso.
Non è esatto dire che nell'aikido non ci sono atemi, o comunque va spiegato correttamente cosa si intenda.
L'atemi, evidentemente, non va portato nella tecnica aikidoistica, e ciò per le note esigenza etiche (se l'obiettivo è impedire di ferire senza ferire, è chiaro che devo espungere le tecniche potenzialmente distruttive, "irreversibili" e pericolose come le percussioni).
Ma l'atemi non va portato nella sua intera consistenza anche perchè, tra l'altro, finirebbe per spezzare, per così dire, il flusso presente nella tecnica, del quale rappresenterebbe un momento di rottura, una "frattura della sfericità".
Gli atemi, d'altro canto, sono inglobati nell'esercizio, e lo stesso waza di aikido è frutto della concatenazione armonica e continua di movimenti di evasione e di colpi, che l'aikidoista decide di evitare di portare a termine.
Se prendiamo, ad esempio, una tecnica di yokomenuchi ikkyo omote, ebbene vediamo come dall'attacco di uke l'esecutore uscirà con un movimento, se prendiamo il caso di una evasione interna, che consiste in un colpo diretto al viso dell'avversario, e prosegue poi con la applicazione di ikkyo che è a sua volta un colpo al viso sublimato in leva, e che prosegue ancora con un avanzamento che sostituisce, per così dire, un calcio al torace o al viso di uke, e così via.
In altre occasioni, l'atemi è più visibile, nel senso che generalmente la tecnica propriamente detta viene preceduta da un movimento che riproduce la percussione, spesso al fine di trovare lo spazio nella guardia di uke e "distrarlo" (tipico il caso delle entrate in uchi kaiten, dunque sotto l'ascella del partner).
Anche in tal caso, tuttavia, bisogna evitare il più possibile di interrompere il flusso del movimento, e dunque a mio giudizio si deve cercare di portare il colpo (naturalmente comunque senza affondare, nè sfiorare l'altro) come una parte del movimento di entrata, senza isolarlo dalla entrata stessa.
Per restare all'esempio di uchi kaiten, mettiamo sankyo da presa al polso, sarebbe bene evitare di simulare un pugno al viso di uke, per iniziare solo dopo il movimento, essendo a mio giudizio preferibile, e più "aikidoistico", iniziare a muoversi verso la guardia del partner e contestualmente a tale entrata avvicinare la nostra mano al viso di uke in modo da simulare l'attacco e impegnare il partner in modo da evitare di essere colpiti.
E' chiaro che talvolta l'istruttore, o anche semplicemente il compagno anziano, possono dovere spezzare la continuità del movimento in un'ottica didattica ed esemplificativa, così come in altre occasioni può essere necessario, per ottenere da parte di uke un corretto atteggiamento nell'attacco, separare i singoli momenti della tecnica, magari enfatizzandone una parte.
Si tratta tuttavia di eccezioni, o meglio di "licenze" didattiche, e vanno utilizzate a fini precisi.
Consiglierei, dunque, di evitare atteggiamenti da samurai, ed improprie enfatizzazioni degli atemi, perchè altrimenti, ritengo, sarebbe preferibile tornare a studiare alla fonte, e dunque dedicarsi direttamente al daito o in generale alle discipline madri, lasciando da parte l'aikido che è, direi per fortuna, un'altra cosa.

domenica 22 maggio 2011

Lo stage e la sua attualità

Quando ho iniziato la pratica, oramai più di venti anni fa, gli stages venivano tenuti soltanto dai Maestri giapponesi.
Il calendario non era così fitto, per quanto i Maestri, residenti (Fujimoto, Hosokawa e Kurihara) e non (Tada ovviamente in primis, ma erano invitati abbastanza spesso anche Ikeda, Asai, Masuda, Nomoto, Yokota), si dessero un gran da fare, prodigandosi ammirabilmente in lungo e in largo per il Paese e moltiplicando gli appuntamenti.
I raduni erano insomma relativamente pochi, ma anche per questo, e per la gigantesca statura tecnica e didattica degli insegnanti, erano considerati alla stregua di eventi, ai quali si accorreva, e che venivano percepiti come veri e propri "eventi".
Da qualche anno, lo vediamo tutti, non è più così.
I Maestri d'altro canto sono drasticamente diminuiti, alcuni neppure più praticano, altri hanno sempre maggiori difficoltà a spostarsi, e in generale può dirsi che quell'epoca, lo dico con grande malinconia, si è definitivamente conclusa.
Il loro posto è stato preso dagli istruttori italiani, e i raduni sono diventati tantissimi.
Ogni fine settimana gli stages in programma sono quattro, cinque, in ogni parte d'Italia.
Addirittura anche nel periodo estivo, tempo nel quale "insistono" ancora, speriamo il più a lungo possibile, due grandi appuntamenti quali Laces e La Spezia, si iniziano a vedere in calendario alcuni raduni tenuti da insegnanti "autoctoni".
Nulla di male, di per sè, se non fosse che nella lista dei sensei che si prodigano nel tenere alcuni di quei raduni, figurano nomi o del tutto sconosciuti, o peggio ancora del tutto impresentabili, al più degli onesti praticanti il cui ambito di operatività dovrebbe essere solo ed esclusivamente quello "domestico".
Comunque, il problema non è nemmeno, in se stesso, quello della adeguatezza di chi si propone, perchè, in teoria, ciascuno deve potere fare quello che vuole, e appunto proporsi alla collettività degli aikidoisti, raccogliendo consensi o bocciature.
Tuttavia, non posso non notare, dalla consultazione delle fotografie o dei video puntualmente pubblicati e relativi agli stage organizzati, e dalla mia stessa esperienza in qualità di paretecipante e organizzatore, che è sempre più difficile riuscire a garantire una decente affluenza.
Credo che questo dipenda proprio dalla inflazione degli appuntamenti degli ultimi anni, e che, per una ovvia legge economica, si sia determinata una percezione di minor valore dell'evento stage in sè.
Il risultato, mi sembra, è una generale svalutazione di tutti gli stages, e della importanza che questo genere di esperienze dovrebbe avere per il praticante.
E' un peccato, perchè la funzione dei raduni è quella di mettere i dojo in comunicazione, e di consentire a insegnanti di particolare valore di diventare dei punti di riferimento ed esprimere una didattica "superiore".
Ne ho avuto una evidente prova nel raduno che abbiamo organizzato a Foggia due settimane fa, nel quale è intervenuto uno dei pochi sesti dan dell'Aikikai, consigliere didattico della Associazione, studioso di spada e aikidosista di sicuro valore (mentre scrivo sta tenendo un seminario a S. Pietroburgo, tanto per intenderci), eppure il numero dei praticanti che sono accorsi, pure dignitosamente superiore alla cifra simbolica di venti, mi è parsa troppo modesta.
Ma non è solo la quantità, che è in parte mancata, quanto piuttosto il fatto che mancavano del tutto i principianti (tranne i miei, evidentemente "coscritti"), il che mi lascia perplesso, perchè se nuovi praticanti, che dovrebbero essere assetati di questo genere di contatti, si disinteressano del tutto ai raduni, e neppure vengono a curiosare da spettatori (d'accordo, era la festa della mamma e a Bari c'era la processione di San Nicola, ma insomma..), allora mi chiedo quale futuro può avere la nostra disciplina in questo Paese, o almeno in questa zona.
Dobbiamo, noi insegnanti, rifletterci, e capire se non ci sia qualcosa da rivedere nella gestione dei propri corsi, e in generale nell'organizzazione di questi eventi.
Credo fermamente che sia meglio che i raduni siano pochi ma qualificati, ma allo stesso tempo occorre cercare di fare comprendere ai nostri studenti l'importanza della partecipazione e dello scambio di esperienze che gli stages consentono, e non assecondare mai la pigrizia dell'allievo, magari perchè siamo impauriti dalla possibilità che, guradandosi intorno, quell'allievo possa trovarci meno meravigliosi di quanto, nel chiuso della nostra palestra, siamo riusciti a fargli pensare.

sabato 16 aprile 2011

Stage dell'8 maggio

Ricordo a tutti che domenica 8 maggio, sotto la direzione di Roberto Foglietta, VI dan dell'aikikai d'Italia, responsabile del dojo Renbukai di Pesaro e Rimini, e consigliere dell'Aikikai d'Italia, si svolgerà un seminario didattico.
E' un insegnante che ha quasi trentacinque anni di pratica alle spalle (mi risulta che abbia iniziato a praticare nel 1977), eppure in lui si coglie una grande voglia di crescere ancora, imparare nuovi modi di fare, non accontentarsi.
Si tratta di uno stretto collaboratore del Maestro Fujimoto, del quale tiene a dire di avergli fatto da uke per decenni.
Lo dice, da un lato, perchè chiunque abbia avuto l'esperienza di trovarsi a svolgere questo compito, anche sporadicamente come il sottoscritto, sa quanto sia difficile riuscire a "soddisfare" appieno le aspettative del Maestro, che sollecita continuamente uke con cambi di direzione, spinte e controspinte, spostamenti inaspettati, e dunque è comprensibile che i suoi uke ne siano fieri.
Dall'altro lato tiene a precisarlo perchè, come dice spesso il Maestro, nella didattica aikidoistica uke è addirittura più importante di tori, nel senso che egli deve possedere una superiore conoscenza della tecnica e dei principi di base della disciplina (non è un caso, d'altro canto, che nella didattica del kenjitsu e del kobudo in genere ad attaccare è il maestro, e dunque il più esperto).
Pertanto un buon uke è, per continuare con il pensiero del Maestro, anche e certamente un buon tori, e chi ha la fortuna e l'abilità di seguire come uke un grande Maestro ha la possibilità di comprendere al meglio e più profondamente il suo messaggio.
Dunque, per chi voglia approfondire lo studio dell'aikido così come trasmesso e insegnato dal maestro Fujimoto, e più in generale chiunque voglia fare un esperienza di pratica in qualche misura "superiore", credo che debba accorrere ad eventi come questo.
Foglietta certamente ha tanto da insegnare.
Dopodichè, ognuno è giusto che segua la propria strada.
Abbiamo corporature, attitudini, e direi anche sensibilità estetiche differenti, ed è inevitabile, e a mio giudizio bellissimo, che ciascuno esprima un proprio aikido.
Perchè però questo possa accadere in modo virtuoso, tuttavia, è indispensabile, secondo me, cercare di praticare oltre il proprio dojo e la propria stretta realtà domestica.
E' chiaro che è condizione necessaria ma non sufficiente, per diventare accettabilmente bravi, seguire i raduni, perchè è evidente che è altrettanto importante lavorare bene nel quotidiano della propria palestra.
Tuttavia, penso che occorra fare entrambe le cose, e questo lo dico soprattutto a che insegna, o aspira a farlo, e dunque ha o avrà una responsabilità maggiore e più profonda che deriva dall'essere in grado di trasmettere il più ampio e serio sapere possibile.
Comunque, l'8 maggio siamo al Giannone, in via Sbano, dalle 10 in poi.
Alimentatevi bene, l'insegnante è di quelli con i quali non ti puoi risparmiare, e venite a praticare con la certezza che sarà, a qualunque "stile" si appartenga, una esperienza aikidosisticamente intensa e importante.
Vi aspetto.

domenica 3 aprile 2011

Un argomento impegnativo: Il Ki

"Non c'è Aikido senza Ki"....
E' una frase attribuita al Fondatore, e dunque, per così dire, è condivisibile a priori.
D'altro canto, il kanji di "Ki" compone la parola che designa il nome della disciplina, e dunque...
Su cosa sia, però, l'energia alla quale rimanda il termine "Ki", difficilmente potrebbe conservarsi questa unanimità di partenza.
Dirò la mia, e nulla più.
A mio giudizio, il ki non è altro che la capacità di valorizzare al meglio, e interamente, le proprie potenzialità, evitando di rimanere ingabbiati nei "fattori di disturbo", interni ed esterni, che sono in agguato in ogni momento del nostro agire.
In questo senso, allora, quella di coltivare il ki è un'esigenza per chiunque, in ogni campo si cimenti, e qualunque cosa faccia (l'atleta di fronte alla gara, il pianista all'inizio di un concerto, l'avvocato prima di un'arringa, e così via).
In ambito marziale, in particolare, la ricerca del Ki è il tentativo di applicare, appunto al meglio, ciò che si è studiato e per il quale ci si è preparati.
E' esperienza assai frequente per il praticante quella di trovarsi aggredito o minacciato da qualcuno e di essere paralizzati dalla paura, senza essere in grado di mettere in pratica, o riuscendo a farlo in modo insoddisfacente, le tecniche alle quali ci si è dedicati per tanto tempo sul tatami.
Questo accade, evidentemente, proprio perchè le tecniche di combattimento richiedono, per potere essere messe in pratica, una grande determinazione e presuppongono coraggio e audacia.
Non è affatto semplice, dal punto di vista mentale, rimanere calmi e imperturbabili (almeno nel senso di essere accettabilmente lucidi) mentre qualcuno ci fronteggia, magari armato di coltello.
Normalmente, difatti, in una situazione del genere, prima ancora che l'aggressione abbia inizio, l'aggredito già si immagina ferito e colpito dall'arma, e dunque non è in grado, spesso, di mantenere la calma necessaria a compiere una evasione dall'attacco, magari scivolando a lato dell'avversario attraverso uno spostamento di pochi centimetri, creando la condizione di vantaggio e mettendo in atto una tecnica efficace a disarmare l'aggressore.
Era d'altro canto lo stesso problema che affliggeva il samurai, ed è per questo che gli appartenenti a quella casta guerriera si dedicarono in modo intenso alla ricerca religiosa attraverso la pratica zen, come strumento di "preparazione alla eventualità della morte".
Solo accettando serenamente questa eventualità, difatti, è davvero possibile applicare in tutta la propria efficacia le tecniche marziali.
Non è detto che questo accada.
La ricerca aikidoistica, come quella religiosa d'altro canto, non è affatto scontato che riesca ad approdare a traguardi così alti e difficili.
Ciò non toglie nulla, a mio giudizio, alla bellezza della disciplina, e alle soddisfazioni che da essa possono comunque trarsi. E' evidente.
Questo non è, però, a mio giudizio, un buon motivo per rinunciare a priori a questa ambizione.
Una cosa è certa.
Non c'è bisogno di atteggiarsi a santoni e illuminati.
Ricordo bene una intervista di circa vent'anni fa rilasciata alla rivista dal maestro Fujimoto, nella quale, ad un certo punto, all'intervistatore che gli chiedeva di "parlare di Ki" il Maestro, dopo essersi schermito e tentato di cambiare discorso, rispose serafico e ironico "Vivo, dunque c'è ki", per poi esclamare, ridacchiando, "Forse quando io settant'anni parla di ki".
Ebbene, il suo ki, lo sta ampiamente dimostrando, è addirittura straripante.
Pratichiamo bene, dunque, seriamente, e forse, chissà, qualche chance in più di trovarlo, questo misterioso ki, l'avremo...

sabato 19 marzo 2011

Orari e giorni di pratica

Comunicazione importante...
Per tutto il mese di marzo, per ragioni "organizzative", la lezione del mercoledì viene anticipata al lunedì.
Dunque, sino a nuovo ordine, i gioni di lezione sono il lunedì ed il venerdì, orientativamente tra le 18.30 e le 20.00.
Chi già ci frequenta sa che gli orari non sono precisissimi, e questo prevalentemente perchè condividiamo uno spazio piuttosto affollato, e perchè la maggior parte degli studenti viene dalla provincia, e non sempre riesce a raggiungere la palestra con facilità.
Sono problemi che l'anno prossimo, nel quale dovremmo poter disporre di una sala già attrezzata, immagino saranno in gran parte superati.
Ribadisco che, ove qualche iscritto presso altri dojo volesse venirci a trovare, ne sarei onorato.
Dunque, lo dico soprattutto a praticanti di Foggia, qualcuno dei quali è stato per di più un mio studente quando insegnavo all'aikikai Foggia, affacciatevi quando volete...
Buon allenamento a tutti.

giovedì 17 marzo 2011

Pensando al Giappone ferito ...

Non c'è molto da dire di fronte ad immagini agghiaccianti e terribili come quelle che hanno raccontato l'immane catastrofe che ha colpito il nostro caro Paese di elezione.
Sono rimasto, e tuttora sono, sgomento e impressionato dalla violenza con la quale la natura ha devastato quella terra per me in parte mitica, il posto che anelo a visitare da sempre, la cui bellezza e unicità è stato veicolo della mia curiosità e della mia scoperta dell'aikido.
E' angosciante assistere alla scena di quel popolo, speciale e a me carissimo, che ripiomba, nell'arco di pochi decenni dalle inenarrabili tragedie di Hiroshima e Nagasaki, nell'incubo dell'olocausto nucleare.
Ne sto ammirando la straordinaria compostezza e dignità, eppure ho la sensazione che questa ulteriore ferita li abbia prostrati e demoralizzati.
Spero che tutto il magnifico patrimonio culturale e filosofico del Giappone sia loro di aiuto e sostegno, e che costituisca, ancora di più che alla fine della disfatta bellica, un' ulteriore base per ripartire e rigenerarsi.
Penso, devo essere sincero, al Maestro e al suo stato d'animo, e mi chiedo come viva questa vicenda, concomitante ad un momento molto difficile per lui.
Mi auguro che, lui e il suo popolo, reagiscano da par loro, e ci impartiscano un'altra grande lezione di coraggio e civiltà.
Sono loro vicino, con tutto il mio spirito.

sabato 5 marzo 2011

"Impedire di ferire senza ferire"

E', al contempo, un precetto etico e la sintesi stessa della natura delle tecniche aikidoistiche.
L'aikido, difatti, è un complesso di esercizi all'interno dei quali tecniche marziali di terribile efficacia vengono "inglobate", per così dire, in modo da sterilizzarne la violenza e i rischi di infortuni che deriverebbero altrimenti dalla pratica.
Ove si presti la dovuta attenzione nell'osservare una qualsiasi waza di aikido ci si avvede facilmente che l'esecutore ha due o più spesso numerose occasioni per chiudere la contesa e soggiogare violentemente l'aggressore.
Tuttavia non lo fa, non sfrutta queste possibilità. Sembra quasi che l'intento sia quello di prolungare, nei limiti del ragionevolmente possibile, il contatto con l'altro.
Le ragioni di questo atteggiamento sono tante, ma sono fondamentalmente riducibili a due.
La prima è, appunto, un esigenza etica.
L'aikido, non va dimenticato, fu elaborato da O' Sensei in un contesto culturale, quello giapponese della prima metà del novecento, caratterizzato da pulsioni razziste, militariste, fortemente nazionaliste.
O' Sensei comprese, prima di quella grande catarsi collettiva causata dai bombardamenti atomici, dalla disfatta bellica e dalla resa umiliante, che le arti marziali avevano in sè un germe di violenza che era stato impiegato per diffondere e favorire il delirio di supremazia che aveva condotto il Giappone ad elaborare e tentare di attuare un progetto di soggiogamento dell'intero Estremo Oriente, e i suoi militari a rendersi responsabili di terribili e disonorevoli eccidi (la vergogna del massacro di Nanchino, le schiave prostitute in Thailandia, l'asse con i regimi nazi fascisti europei).
Il Maestro era tuttavia un uomo del budo, amava quel mondo, e riteneva possibile veicolare, attraverso esso, valori contrari alla violenza e al disprezzo per la vita.
Da qui la geniale intuizione della elaborazione delle tecniche aikidosistiche, esercizi appunto nei quali la carica distruttiva della tecnica marziale viene, in qualche modo, sterilizzata.
Nella pratica, allora, ecco che un pugno al volto diventa un semplice gesto di minaccia, uno strangolamento viene trasformato in uno sbilanciamento, un violento calcio viene sublimato in un avanzamento verso uke, e così via, e l'aspirazione è quella di arrivare al risultato di neutralizzare il tentativo di sopraffazione messo in atto dall'aggressore senza cagionare a quello danni permanenti.
L'altra grande esigenza è invece di natura schiettamente pratica.
L'esercizio, difatti, realizzato in tal modo fa sì che sia estremamente difficile procurarsi infortuni, recarsi danno e recarne sbagliando qualcosa.
E' evidente infatti che, se simulo un violento attacco diretto al viso del compagno di allenamento, porto quell'attacco con l'intento di controllarlo un attimo prima che esso giunga a contatto con uke, ebbene è chiaro che è assai probabile che, vuoi perchè io non riesco a fermare in tempo il colpo, vuoi perchè il compagno per errore si fa avanti con il capo, le possibilità di un contatto disatroso si fanno molto maggiori.
Dunque, dovremmo sempre esserne consapevoli, le tecniche di aikido sono, paradossalmente, al contempo "inoffensive" e "pericolosissime".
Potremmo dire, anzi, che l'unico modo per praticare tecniche così potenzialmente distruttive è praticandole nella forma dell'esercizio aikidoistico.
Attraverso esso, però, viene mantenuta inalterata tutta la carica difensiva e offensiva delle tecniche marziali di provenienza, perchè il praticante potrebbe, facilmente, "ritrasformare" l'esercizio di aikido nel waza marziale.
Questo è l'aikido, e a mio giudizio la nostra disciplina ha in sè questa geniale ambiguità morale.
L'aikido difatti non fa una scelta davvero definitiva nel senso della non violenza, anzi in un certo senso addestra alla messa in pratica di tecniche che, appunto ricalibrate sull'esigenza difensiva, mantengono inalterate tutte le attitudini di combattimento delle tecniche marziali di provenienza.
Dunque, "impedire di ferire senza ferire" descrive in ogni senso l'aikido, ne è la summa in tutti i sensi.
Va intesa, però, consapevolmente, senza banalizzazioni.
Odio sentire sciocchezze del tipo "l'aikido è una danza", perchè mi sembra la tipica frase di chi crede di avere compreso ciò che fa, ma in realtà ha etichettato senza aver capito nulla.
L'aikido, allora, la definirei come una disciplina di origine marziale, a fortissima tensione morale ed etica, nella quale l'aspirazione alla non violenza deve realizzarsi attraverso l'acquisizione, da parte dell'esperto aikidosta, di una volontà di non utilizzo di tecniche altrimenti potenzialmente devastanti e distruttive che sarebbe, altrimenti, perfettamete in grado di eseguire.
La scelta della non violenza, in altre parole, ha un valore in un certo senso maggiore, perchè è più preziosa se fatta da chi, ove volesse, quella violenza sarebbe in grado di sprigionare.

domenica 27 febbraio 2011

Il Maestro Fujimoto

Per quanto abbia iniziato a praticare oramai più di un ventennio fa, posso forse dire di avere davvero iniziato a studiare l'aikido soltanto da cinque o sei anni, quando ho iniziato a seguire più assiduamente il Maestro Fujimoto.
Credo si tratti di un caso più unico che raro, una di quelle eccezionali combinazioni di genialità nell'esecuzione e impressionante capacità didattica, che si verificano immagino poche volte ogni secolo.
Genialità nell'esecuzione, perchè il suo aikido è di impressionante bellezza, è perfettamente sferico, dinamico, mi sembra di incredibile precisione in ogni momento della tecnica, dallo spostamento alla postura, dalla distanza alla scelta di tempo.
Ma questo non basterebbe ad entusiasmarmi tanto, perchè di altri eccezionali esecutori se ne possono trovare anche altri tra i grandi shihan giapponesi.
Ciò che trovo assolutamente insolito, come dicevo, è che un fuoriclasse nell'arte riesca anche a trasmettere quel sapere. A spiegare in altre parole come riesce a fare quelle cose. Quali accorgimenti lo studente deve mettere in pratica perchè ci si possa almeno avvicinare a quella maestria.
La quantità di informazioni che ho potuto apprendere sulla disciplina in questi anni in cui ho frequentato gli stages del Maestro, la inesauribile varietà di modalità di esecuzioni che mi trovo a poter proporre ai miei studenti e che allo stesso tempo mi permette di non impigrirmi, di cimentarmi con sempre nuovo entusiasmo e passione, costituiscono il risultato tangibile di questa fase della mia vita aikidoistica, e mi ripaga di ogni sforzo, personale od economico che sia.
Posso dire, consapevolmente, che solo in questa fase sto comprendendo moltissimi degli aspetti della disciplina e della pratica che in tanti anni precedenti non avevo mai davvero compreso e capito, il mio aikido è cambiato profondamente, immagino in meglio, nell'arco di pochi anni, e la mia sensazione è di essere in continua evoluzione.
Ho approndito enormemente alcuni aspetti altrimenti e generalmente piuttosto trascurati, come il fondamentale ruolo di uke, e sono riuscito finalmente a crescere apprezzabilmente e progredire nell'utlizzo e nello studio delle tecniche a mani nude, nel lavoro in ginocchio, nelle armi.
Invito sinceramente, con tutto il cuore, a frequentare il più possibile questo straordinario didatta e magnifico maestro, prima che sia troppo tardi.
Shihan, come è noto, vuol dire bussola, colui che va seguito perchè indica la via giusta.
Mai, davvero mai, credo che titolo sia stato più appropriato come per Fujimoto yoji, VIII dan, vice direttore dell'Aikikai d'Italia.

martedì 22 febbraio 2011

ichi go ichi e

E' tradotto, generalmente, con "una volta, un incontro", ma potrebbe rendersi efficacemente con "ogni volta, come l'ultima volta".
E' un concetto proprio dello zen, elaborato in particolare nella disciplina della cerimonia del tè, dove esprime la necessità a che i commensali comprendano e vivano, pure nella ripetitività dei gesti codificati, l'unicità di ogni incontro.
In ambito marziale, e nello studio dell'aikido in particolare, esprime soprattutto un precetto didattico.
Il senso che si vuole esprimere con questa frase è che, se si vuole davvero progredire nella pratica, raggiungere (o almeno tentare di raggiungere) l'eccellenza, è indispensabile che in ogni momento dell'allenamento si cerchi di vincere il demone della noia, dell'appagamento, della definitiva soddisfazione di sè.
In altre parole, per quanto l'esercizio proposto appaia identico a quelli già svolti e uguale a quelli che verranno poposti nell'allenamento successivo, è indispensabile che si cerchi sempre in esso ciò che non va, che può essere migliorato.
Che si presti, in sostanza, a ciò che si fa, la stessa attenzione e dedizione che metteremmo nel compiere quel gesto ove avessimo la consapevolezza che quella possa essere l'ultima (o l'unica) volta in cui potremo farlo.
Non dovremmo, cioè, mai dire "ah, si, questo lo so fare", perchè sempre e comunque è possibile e doveroso cercare di migliorarsi, aggiungere un tassello, correggere qualcosa.
Questo atteggiamento dovrebbe accompagnare il praticante (anche ove fosse un maestro nella disciplina) nel compimento di qualsiasi gesto, dal saluto iniziale sino alla più complessa delle tecniche.
Non è affatto raro sentire grandissimi Maestri, magari alla soglia degli ottant'anni, dire che solo allora hanno iniziato a comprendere davvero l'aikido.
Non si tratta, credo, di un vezzo di falsa modestia, e non penso che cerchino il compiacimento che deriva dallo stupore del deferente ascoltatore o lettore.
Credo si tratti invece di considerazioni sincere, e allo stesso tempo di un immenso lascito a chi è destinato a venire dopo di loro.
Si potrebbe riassumere con ... ichi go ichi e.

domenica 16 gennaio 2011

Che cos'è l'Aikido

Si tratta di una disciplina creata dal maestro Morihei Ueshiba, denominato O' sensei dagli aikidoisti di tutto il mondo, in un periodo compreso tra gli anni dieci e quaranta del secolo scorso.
Spesso si sente dire dai Maestri che l'aikido "non è un'arte marziale".
E' corretto forse dire che non è "soltanto" un'arte marziale, perchè le tecniche di combattimento derivate dal Ju Jitsu, in particolare dalla stile Daito Ryu, sono trasfigurate e sublimate in una serie di esercizi caratterizzati da continuità, fluidità, sfericità, senza rotture del movimento che si instaura con l'attacco di uke e la azione di tori.
Sotto il profilo storico, racconta il maestro Tada, IX dan e direttore didattico dell'Aikikai d'Italia, che "La filosofia alla base dell'insegnamento e le tecniche del Maestro Ueshiba Morihei, il fondatore dell'aikidô, differirono grandemente a seconda delle epoche di evoluzione della sua pratica.

Primo periodo: Era Taishō (1912-1926)
Praticò numerose forme di bujutsu e raggiunse l'illuminazione spirituale attraverso la pratica religiosa.
Insegnò Daitōryū Aikijujitsu
In quest'epoca impostò la pratica sui kata
Fra le scuole di jujitsu, oltre a quelle che si basavano principalmente sul combattimento corpo a corpo e sul combattimento a terra, ne esistevano anche alcune che avevano tramutato i movimenti e le tecniche di spada in tecniche di taijutsu, la scuola di Daitōryū di Aizu fu una delle più rappresentative.

Secondo periodo: dal 1° al 17° anno dell'epoca Shōwa (1926- 1942)
Si allontanò dalla religione per diventare uno specialista di budō (arti marziali).
Dal Daitōryū Aikijujitsu si entra nell'epoca del Ueshibaryū Aikijutsu, successivamente modificato in Aiki-bujutsu e in seguito Aiki-budō. Aggiunse al Daitōryū le sue conoscenze relative alle tecniche di lancia (Sōjutsu), di cui era un rinomato esperto, creando così il metodo "uchikomi", una sorta di "kata che  vive" che viene considerato tipico dell'aikidō. Questa fu l'epoca in cui arrivó a possedere un'eccezionale forza spirituale, venne consacrato ai vertici del mondo delle arti marziali e vi esercitò la propria autorità.
Riguardo a quest'epoca, si racconta che Yamamoto Gonbê (1852~1933, Ammiraglio e Primo Ministro), assistendo ad una dimostrazione del Maestro Ueshiba, abbia detto "E' la prima volta, dopo la Restaurazione Meiji (1868), che vedo una lancia che 'vive'...!" e che che il Maestro Kanō Jigorō (1860~1938) del Kodōkan abbia affermato "Questo è il vero judō che ho sempre desiderato (praticare)!".


Terzo periodo
: dal 18° anno dell'epoca Shôwa (1943) fino ai nostri giorni
Nella primavera del 1943 decise di abbandonare tutti gli impegni fino ad allora presi nei confronti dell'esercito, della marina e del mondo delle arti marziali per rifugiarsi ad Iwama, nella Prefettura di Ibaragi, dove si dedicò all'agricoltura, coniugando la sua passione per le arti marziali all'amore per la terra. E' in questa fase che si venne a creare "L'Aikidō in quanto Via di tutti coloro che coltivano il grande amore per il cielo e la terra". E' questa l'epoca, dal dopoguerra in poi, in cui l'aikidō fu presentato al pubblico e si venne a diffondere in tutto il mondo"
La guida morale della disciplina è tramandata ereditariamente all'interno della famiglia Ueshiba, conformemente del resto alla stretta tradizione giapponese.
L'attuale doshu, termine appunto comunemente reso con il concetto di "guida", è Moriteru Ueshiba, nipote del Fondatore.

mercoledì 12 gennaio 2011

Significato del termine 合氣道 (aikido)

Il nome aikido è formato da tre caratteri sino-giapponesi: 合 (ai), 氣 (ki), 道 (do) la cui traslitterazione è la seguente:
合 (ai) significa "armonia" e nel contempo anche "congiungimento" e "unione";
氣 (ki) è rappresentato dall'ideogramma giapponese 氣 che, nei caratteri della scrittura kanji, raffigura il "vapore che sale dal riso in cottura". Significa "spirito" non nel significato che il termine ha nella religione, ma nel significato del vocabolo latino "spiritus", cioè "soffio vitale", "energia vitale". Il riso, nella tradizione giapponese, rappresenta il fondamento della nutrizione e quindi l'elemento del sostentamento in vita ed il vapore rappresenta l'energia sotto forma eterea e quindi quella particolare energia cosmica che spira ed aleggia in natura e che per l'Uomo è vitale. Il 氣 "ki" è dunque anche l'energia cosmica che sostiene ogni cosa. L'essere umano è vivo finché è percorso dal "ki" e lo veicola scambiandolo con la natura circostante: privato del "ki" l'essere umano cessa di vivere e fisicamente si dissolve;
道 () significa letteralmente "ciò che conduce" nel senso di "disciplina" vista come "percorso", "via", "cammino", in senso non solo fisico ma anche spirituale.
合氣道 (ai-ki-do) significa quindi innanzi tutto: «Disciplina che conduce all'unione ed all'armonia con l'energia vitale e lo spirito dell'Universo».
Ueshiba Morihei, il fondatore dell'aikido, usava dire che l'aikido anela sinceramente a comprendere la natura, ad esprimere la gratitudine per i suoi doni meravigliosi, ad immedesimare l'individuo con la natura. Quest'aspirazione a comprendere e ad applicare praticamente le leggi della natura, espressa nelle parole "ai" e "ki", forma l'essenza ed il concetto fondamentale dell'arte dell'aikido.