L'Aikikai d'Italia

sabato 19 novembre 2011

Il corretto atteggiamento da avere nella pratica

Mi capita spesso di dovere interrompere la lezione per spiegare, o almento tentare di spiegare, alcune delle (per così dire) precondizioni di una corretta e fruttuosa pratica aikidoistica.
Sia chiaro, io mi ritengo soltanto un divulgatore, e dunque tento di evitare il più possibile innesti personalistici, pure inevitabili alla luce dell'eseperienza fatta e comunque acquisita.
Spesso, la difficoltà dell'insegnante, quella principale intendo, è quella di rendere comprensibili le dinamiche dell'esercizio proposto, in modo da evitare i due atteggiamenti simmemtricamente errati.
Nell'aikido, difatti, non si combatte, non si lotta, e uke e tori si alternano nello sperimentare la tecnica ben sapendo esattamente cosa'altro sta per fare ed eseguire.
Non c'è, in altre parole, sorpresa.
Eppure, e qui sta la difficoltà, occorre ricreare quelle condizioni di sorpresa, perchè altrimenti non c'è tecnica e non c'è aikido.
Deve "fare finta" di essere sorpreso Tori, nel senso che la sua reazione all'attacco deve essere connotata da immediatezza, decisione, attenzione e "definitività".
Io che eseguo, insomma, so che sta arrivando, ad esempio, una presa al polso, ma devo agire con lo stesso atteggiamento che avrei ove quella che arriva non fosse, o potesse non essere una presa ma un pugno, o peggio, una coltellata.
Devo, dunque, anticipare quel tanto che serve per evitare che la presa si consolidi, devo uscire dalla linea di attacco ponendomi nel punto morto (shikaku) di uke, devo, pure non portando l'atemi (il colpo ai punti deboli, kyusho), avere la stessa postura che dovrei assumere ove quell'atemi volessi portare (per esempio, caricare il busto e l'anca).
Non devo, in sostanza, agire debolmente e in ritardo "perchè tanto è una presa e non può farmi male".
Allo stesso modo, Uke sa bene la tecnica o almeno la tipologia di tecniche che tori gli applicherà.
Sa bene che tori, salvo che si tratti di un incosciente, agirà con la necessaria lentezza e delicatezza, perchè non vuole nuocergli.
Probabilmente, e nella maggior parte dei casi, sa anche perfettamente da quale direzione tori uscirà dall'attacco.
Dunque, perchè la pratica possa avere luogo, deve assumere l'atteggiamento (del corpo, è chiaro, non mentale) di chi venisse sorpreso, e appunto ricreare lo sbilanciamento e le movenze che plausibilmente avrebbe ove quella sorpresa davvero vi fosse.
Deve, dunque, agire come se l'atemi di tori arrivasse, o potesse arrivare.
Deve, di fronte allo spostamento di tori, evitare di seguirlo immediatamente, perchè questo, di fronte ad una reazione inaspettata, non potrebbe normalmente accadere.
Deve, quando subisce l'evasione dell'altro, tentare di riposizionarsi accettando lo squilibrio che quello in questo modo ha determinato.
Se tutto questo non c'è, allora non ci può essere aikido.
E' una pena, davvero, vedere alcuni praticanti che ignorando tutte queste dinamiche, realizzano una tecnica nella quale uke attacca svogliatamente e senza alcuna marzialità (ho visto spesso qualche vecchio trombone, ma lo stesso vale per i loro allievi, attaccare guardando altrove, e un attimo dopo magari avere anche l'ardire di sperticarsi in istruzioni tecniche e marziali), e tori reagire senza uscire dalla linea d'attacco, in maniera scoordinata e goffa, magari enfatizzando oltre misura un atemi portato malissimo ma con atteggiamento da samurai medievale e implacabile.
Di solito, se il livello di idiozia è sufficientemente alto, i due finiscono avvinghiati nel tentativo di piazzare la tanto abusata kaeshi waza (restituire la tecnica, in altre parole una controtecnica), che è il regno dell'ignoranza aikidoistica.
Se tutti e due gli esecutori fanno quello che devono fare, e con l'atteggiamento giusto, non ci sono kaeshi waza, e tanto la azione che la reazione sono concentrate, dinamiche, e catalizzatrici dell'energia, come sarebbero se, appunto, il contesto fosse davvero quello marziale, e dunque l'esercizio stesso fosse connotato da potenziale definitività.
Questo è l'insegnamento sul quale insiste molto il maestro Fujimoto, assai più delle tecniche in se stesse.
Questo atteggiamento è la precondizione perchè la pratica aikidoistica possa essere credibile, conforme alla tradizione marziale di provenienza, e dunque perchè la nostra difficile e complessa disciplina possa sopravvivere nel tempo.
A mio giudizio, un insegnante che non trasmetta questi canoni di comportamento, non fa bene il suo mestiere.
Agli allievi e studenti mi permetto di dire di verificare, vagliare, scrutare cosa fanno gli altri al di fuori del proprio dojo, e mettere sempre in discussione l'operato e il vero valore del proprio istruttore.
Non siete voi ad essere al nostro servizio, ma noi insegnanti al vostro, e al servizio dell'aikido tutto.
Buon allenamento.

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